Non chiamate “eroe” chiunque spenga una fiamma

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MilleottocentosettantatrèL’odore di fumo era straziante. Fissando il soffitto che una volta si mostrava bianco pensavo alle travi ormai del tutto nere. Vedevo passeggiare quel fumo grigiastro tra le molecole di ossigeno, lo stesso ossigeno che aveva reso possibile la combustione del tredicesimo fiammifero.

Quattordici.

La fiamma mi affascina, la potrei paragonare alla vita.

Quindici, un fuoco intenso, spento senza neppure raggiungere la metà del fiammifero.

Sedici. Accendo, soffio, si spegne.

“Siamo fiammiferi”, sussurro ridendo. “La vita è un fiammifero: qualcuno ce la offre e una volta finito il combustibile, ci spegniamo.”

Con la diciassettesima fiamma, mi resi conto della reazione di Karem al mio gesto precedente. Avevo dato fuoco ad un fiammifero, dopo di che l’ho spento io stessa. Conoscevo Karem abbastanza bene da rendermi conto dei ricordi che per causa mia un’altra volta gli tormentavano la mente. Era un pensiero che non gli dava pace; aver perso il fratello per mano del padre lo aveva segnato a vita. E lui desiderava la pace, quell’assurda ma perfetta sensazione che avrebbe trovato solo al termine della giornata.

Diciotto. Fino ad allora Karem non aveva fatto altro che tossire, poi una pausa di silenzio e di riflessione.

“Sono le cinque”, disse. La potenza di quelle vecchie batterie per orologio mi sorprendeva.

Karem doveva affrontare una tortura ancora sconosciuta: le cinque senza il suo tè e siccome era un inglese di ottima qualità, questo doveva essere molto difficile per lui. Il tè lo avevamo finito il giorno prima, e anche il resto scarseggiava, il che risultava preoccupante. Che stesse morendo anche la speranza? L’outside, come lo chiamava Karem, non ne dava molta. Ma sapere di essere tra i pochi a poterlo ancora osservare era positivo. Eravamo superstiti di quel distruttivo sciopero dell’umanità, che sembrava essersi rifiutata di operare all’interno di determinate menti. L’unico plausibile dubbio riguardava la fine apparentemente prossima delle provviste: saremmo stati altrettanto bravi a sconfiggere la fame?

Diciannove, in onore dell’amore. Soppresso e sostituito dall’odio nei confronti di chi lo riteneva un diritto universale. Karem teneva tra le mani colme di cicatrici la sua foto con Mark a Rimini. Loro amavano l’Italia e quando potevano farlo, venivano in vacanza qui. Scelsero l’anno peggiore, però, per venire a visitarmi.

Sfiorava il viso di carta lucida del suo perduto uomo. Una sottile striscia della foto diventò ancora più lucida; dall’alto verso il basso l’attraversava la lacrima libera di un uomo imprigionato dall’ignoranza altrui.

“My boy…”

Venti, in memoria di Mark, uno dei primi ad essere stato giustiziato da funzionari ecclesiastici, come se vietargli la sua più grande passione, cioè la danza, non fosse bastato a distruggerlo internamente.

“Quando finirà tutto questo?”

“Soon”, o almeno lo speravo.

Ventuno. Per accendere l’ultima Marlboro di Alex, che dall’altra parte del mondo nascondeva l’ansia e la preoccupazione dietro al sorriso che era sempre stato il suo guscio protettivo.

“Da quando fumi?”

“E’ di Alex. Da quando ho nostalgia delle sue labbra.”

“How sweet.”

Ed era vero. Mi mancavano tanto le sue labbra e quel fumo mi ricordava il suo gettare la sigaretta impaziente di togliermi il respiro con un bacio. Troppo tempo mi separava da quei dolci ricordi, facevo persino fatica a rimembrare il suo profumo. Ma era il suo viso che avevo impresso nella mente ed era la visione continua dei suoi occhi infiniti a darmi forza. Soffiavo nicotina inspirando l’odore del ventiduesimo fiammifero.

 

Finalmente l’outside si macchiava dei pacifici colori dell’arcobaleno, e la polvere ferma e stanca si sollevava al passare dei “nostri”. Erano lì per Karem e me. Avevo visto distruzione, sofferenza e mi stavo abituando all’idea della morte, della mia morte. Nel momento in cui ci sentivamo più che mai vicini alla salvezza, nel momento in cui questa ci faceva cenno di salire su una Seat, un temporale rovinò tutto. Vedevo il grigio delle nuvole nella divisa scura dell’ “Orgoglio etero”. Sentivo tuoni in quegli spari.

“Karem!”

“De.. Deinah”

La sua bocca era socchiusa e i suoi occhi verdi erano lucidi. La macchia di sangue e terra si espandeva sulla sua camicia preferita. Il suo viso mi permetteva di leggere la sofferenza di un’illusione  immisurabile.

Guardò il cielo sorridendo e chiuse gli occhi. Sussurrò:

“Mark…”

La sua mano smise di stringere la mia. Divenne fredda. Il suo fumo si disperse nell’aria. Aveva finalmente trovato la sua pace. Ora la sua anima viaggiava libera, pronta ad unirsi a quella di chi, attraverso il sangue, a lui era già unito.

Ventitré. Mi sarei lasciata bruciare pur di mantenere viva quella fiamma. Ma si era spento, si era spento per sempre.

 

 

21 Luglio 2041

La colazione non sarebbe così dolce senza il calore della sua pelle e senza le sue carezze. Alex non fa altro che ricordarmi quanto sia perfetta e lo fa con i gesti, senza parlare. Silenziosamente mi prende le labbra con le sue portandomi allo stato della più piacevole follia, che mi trascina rendendomi complice di questo gioco di ombre, le nostre, che diventano una cosa sola. Si tratta dei rari momenti in cui il bisogno fisico di lei si fa sentire e basta un semplice abbraccio per soddisfarlo. Abitualmente il nostro amore non è fatto d’altro che da noi e dai nostri sguardi. Si aggiungono poi le indispensabili parole, quelle che mi hanno permesso di ritrarla come la personificazione della bellezza, come il mio perenne riferimento, la mia sicurezza.

 

“Milleottocentosettantadue.”

“Continui a contare fiammiferi da quasi otto anni.”

“Noi siamo state fortunate, in fondo.”

“Siamo scappate a qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere.”

“E’ accaduto, e sento ancora l’odore di decomposizione del rispetto, successiva al suo omicidio”

Accende una sigaretta, sputa via l’aria grigia, poi mi guarda:

“Milleottocentosettantatré.”

 

Diana Ciobanu (1B)

 

 

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