Bianco. Umido Attorno a me, solo bianco e umido. Sento la pastosità della polpa che mi fa sentire protetta, al caldo. Chissà com’è da fuori la mia drupa, se è gialla, ancora verde o già rossa. Magari è rivestita di tutti i colori del fuoco perché sta ancora maturando.
Colgo poco di ciò che succede oltre la scorza della drupa, oltre la corteccia della pianta, oltre le sue radici immerse nel terreno umido.
Poi, improvvisamente, sento che qualcosa sfiora il mio frutto. Non è nulla di materiale, è calore allo stato puro, e luce smorzata dalle bianche pareti della drupa, è un raggio di sole.
Il primo della giornata.
Godo di ogni attimo che passo avvolta dalla luce.
Poi qualcos’altro sfiora la drupa, ma non è più gradevole come il primo, questo tocco. È violento, disperato, come se da questo gesto dipendesse qualcosa di infinitamente importante.
Ed ecco la separazione.
Mi sono svegliata da poche ore e già mi separano dalla pianta madre, provo una sensazione di incompletezza che rende ancora più amaro il mio cuore scuro.
Questa volta attraverso la polpa percepisco un odore di sudore e ansia e paura. Le mani che stringono la drupa sono piccole, eppure sono callose e dure…
Sento che mi portano via. Dove sarà la mia pianta madre?
Qualcuno sta ammonendo il bambino che mi porta, lui trema tutto e si fa scivolare la drupa da una mano all’altra.
Lo sento che piagnucola, sta pregando l’altra persona di non fare qualcosa.
Riconosco il colpo.
È come quando, nelle notti di vento della stagione delle piogge, le raffiche piegavano i rami del mio Theobroma con secche scudisciate umide.
Il colpo è seguito da un lamento, un lamento da cucciolo ferito. Un altro colpo, un altro lamento. E ancora, ancora, ancora.
La mia drupa cade a terra e ho quasi paura che la scorza si spacchi, lasciandomi nuda e umida sul cemento, in balìa di una folla di piedi callosi.
Invece la drupa resiste. Il bambino no. Non è la sua manina quella che mi raccoglie, è una mano adulta.
Mi rivolto nella polpa. La mano è sporca di sangue, sangue di creatura degli déi, creatura umana.
Qualcosa si asciuga dentro di me. Mi sento colpevole, è colpa mia se il bambino è a terra. Tutto questo per me, una fava su un milione. Cosa sono, poi, un chicco marrone…
Sento che parlano di me. Un tremito mi scuote, e la mia pietà, il mio senso di colpa sono già svaniti … Anche le fave di cacao sono egocentriche, dopotutto.
La lama. La lama! La lama mi ha sfiorato! Ha tranciato a metà nettamente la drupa e ora due dita deformate scavano avide la polpa per trovare le mie sorelle e me. Sento su di loro altre polpe, altre drupe, altre fave. Sangue, anche qui.
Le dita arrivano fino a me e sono fuori.
La luce mi ferisce, non è più ovattata come dentro la drupa.
Sono su una grata insieme a tante altre; la luce già mi sta seccando ma la pioggia già comincia a cadere. Sempre più fitta, calda, pesante.
Le voci degli uomini si sovrappongono, alterate, e la grata viene sistemata sotto un pergolato.
Vicino a me c’è il bambino. Lo sento dall’odore. È lui, è vivo …
L’aroma macabro del sangue si fonde con l’odore intenso del terreno bagnato, con la puzza di sudore, con la fragranza delle drupe aperte e di noi fave essiccande.
Questo è l’odore di piantagione.
Chiara Murgia (1C)