Otto miglia

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Ad alte latitudini, lo sguardo annega in una luce fredda, secca, artificiale, atona, come quella di un neon a basso consumo.
Con la presenza di nevi e ghiacci poi, cresce ancor di più la sensazione di stare dentro un frigorifero immenso. Un cielo bianco come il soffitto del freezer. I piedi poggiano su un pianeta con la data di scadenza. Ad ogni disgelo, le frattaglie organiche che lo compongono si avvicinano di qualche passo all’inevitabile decomposizione. E da lì, dai cadaveri di ecosistemi, una nuova muffa cresce, sviluppando altri inizi. Una terra che si feconda da se stessa, dal proprio marciume.
In tutto questo c’è un bosco. E nel fitto del bosco, una casa. E dalla casa, da una piccola porta di legno secondaria, esce correndo un uomo. Fa saltare il fragile lucchetto della porta con un paio di calci.
L’uomo è coperto con pochi stracci, consumati da mesi o forse anni di dormite all’addiaccio.
Al collo, un pesante rimasuglio di catena gli sbatte sul torace rachitico, ogni falcata.
La catena sembra sia stata masticata, ma di certo non da una dentatura umana, Cristo, ci sarebbe voluto troppo tempo per rosicchiarla, era acciaio spesso mezzo centimetro.
I piedi nudi lasciano nella neve impronte sporche che pian piano sbiadiscono e si confondono col resto del paesaggio.
Camminare sul ghiaccio a piedi nudi è doloroso e faticoso e correre lo è ancora di più.
L’uomo non ha fiato per urlare, altrimenti lo farebbe. Cazzo, si sgolerebbe dal terrore.
L’ago del suo istinto è puntato verso “lotta per vivere”. A livello critico, fisicamente viene tradotto con una fuga spericolata, nell’intento di porre tra lui e l’abominevole massacro la maggior distanza possibile. Otto miglia: è quella distanza. Raggiunte otto miglia tutto sarà finito.
Corre, l’uomo. Corre come per cercare di superare l’aria di fronte a lui. Sa che otto miglia più in là c’è la speranza.
L’uomo corre, e affonda i piedi contro la superficie cartavetrosa della neve.
Dopo un po’ anche il callo del tallone si scioglie. Grattugiata via tutta la scorza, è la tenera carne sottostante a pagarne le conseguenze.
L’uomo comincia a lasciare piccole tracce di sangue dietro di sè, ad ogni disperato slancio.
L’uomo corre, senza battere le palpebre, sfidando con gli occhi la sciabolata del vento artico.
Ed è grazie a questo che si ferma in tempo.
Un battito di ciglia in più e non avrebbe notato il cambio di colore del terreno, l’ombra, quasi impercettibile, di uno sprofondare mortale.
Davanti a lui, ad ostacolarlo in tutto la sua sconfinata eco, giace un infinito burrone.
Non c’è tempo per maledire la sfiga, non c’è tempo per pensare, nuova direttiva: cercare immediatamente un uscita alternativa. Da destra a sinistra la scarpata è lunghissima, inutile percorrerla, troppo allo scoperto, tentare di scendere è impossibile, troppo ripido, umido e senza appigli.
Bisogna tornare indietro. In direzione dell’orrore ma facendo cura a passargli ben lontano.
L’uomo corre, le tracce di sangue segnano i passi sempre più nettamente.
Il cuore pompa a spasmi irregolari, i polmoni non hanno più pressione, ma continua ad arrancare.
Cerca di farsi un’idea di dove fosse la casa, poi, superato un fitto gruppo di frasche, è costretto a fermarsi di nuovo.
Un altro crepaccio, profondo come l’altro, lugubre, inaggirabile.
Come.. cazzo.. sospira l’uomo, iperventilando alla follia.
Come ho fatto a non accorgermi di questo fosso? Di sicuro non l’ho saltato.. che abbia già.. superato la casa? Pensa, disorientato. Una forte nausea gli afferra la gola.
L’uomo corre, torna nel bosco, cercando di procedere in diagonale.
Sta basso, quasi rasoterra, per evitare che il suo incubo, probabilmente a caccia, lo becchi.
I piedi si stanno tingendo di blu pallido al di sopra della caviglia, mentre al di sotto è solo una poltiglia rossa.
Ecco che fa pochi passi e si trova sul ciglio d’un burrone dagli abissi inverosimili. Un taglio netto nella terra, che lo separa dalla vita ancora una volta.
Torna indietro, fa un passo e si ferma. È sull’orlo del burrone.
Guarda giù. Ha paura a voltarsi. Deglutisce e si gira.
L’uomo cade.

Guido Bertorelli

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