Il cielo collaborava, lo desiderava quanto me. Perfino il vento. Avrebbe voluto essere lui a strapparmi gli indumenti privandomi di ogni insignificante dettaglio che potesse minimamente rendermi fuori luogo in quel contesto tanto folle quanto affascinante. Mi sentivo finalmente a mio agio, o quasi. Sapevo di aver bisogno di condividere un momento simile con l’unica persona che avrebbe compreso, la sola che si sarebbe sdraiata a fianco a me in quella che fuori di noi avrebbero chiamato follia, eppure ignorando il tutto mi avrebbe stretto la mano invitandomi ad ammirare tanta spontaneità, inquietudine e tranquillità.
Le gocce d’acqua sulle palpebre m’impedivano il sonno nonostante la quiete quasi inverosimile. Fu questo il motivo per cui, sdraiata sull’erba come in attesa di espandere ipotetiche radici, mi abbandonai a pensieri colmi di fantasia: m’immaginai migliaia di volte più piccola, in mezzo ad ancor più minuscoli esseri che riconoscevo perché già intravisti nei libri scolastici. Sorrisi. Vedermi nel suo sistema nervoso costituiva di certo un’ottima metafora per lasciar intendere il luogo a cui credo di appartenere: il mio mondo, che riassunto brevemente non sarebbe altro che il suo bellissimo nome, un’altra volta in grado di illuminarmi il viso ancora caldo, seppur vittima dell’ormai fitta pioggia.
Diana Ciobanu (1B)