Fumo, così fitto da non poter vedere neanche a un palmo dal proprio naso. E dietro il fumo corpi. Ammassati gli uni su gli altri per le strade e i vicoli. Così si preannuncia il volto di una città siriana dopo l’attacco con le armi chimiche. Si concretizza uno scenario quasi impossibile, come quello di un incubo. Uomini e donne denunciano problemi respiratori e vomito. Arrivati alle postazioni dei servizi sanitari alcuni di loro sono ancora vivi, altri hanno ormai lo sguardo perso nel vuoto, carico di dolore e la bava alla bocca. Ma la guerra non si ferma mai. Cominciata nel 2011 continua ancora oggi. Nata da ideali laici e liberi ora è cornice di un quadro di morte e dolore. Una guerra civile che si è trasformata in qualcosa di fittizio e inconcepibile. Combattimenti interminabili dove l’unico scopo è quello di rimanere vivi. Sembra quasi che non si badi alle conseguenze sui cittadini, gli innocenti. Alla fine sono proprio questi ultimi che ne risentono maggiormente. Come sostiene il docente universitario Abu Jafar ” servono idee” e continua dicendo “Io credo che la guerra abbia ucciso anche quelle”.
Per le strade ormai deserte, nuvole di terriccio si alzano in aria. Sono gialle e polverose. Oltre a queste delle sagome si muovono. L’odore è quello del sangue e della solitudine. Ribelli assalgono carri armati dell’esercito di Assad. Invocano il nome di Dio, anche se forse neanche loro sanno più il significato di quelle parole. Giovani impugnano fucili e lancia razzi pronti a sparare a un nemico invisibile. Sono vulnerabili. Stanchi della vita. Della guerra civile, che ha portato loro via anche l’ultima risorsa: la speranza.
Si nascondono nelle case, unite le une alle altre da fori scavati nei muri per creare passaggi sicuri e nascosti. I cittadini, invece, sono le ombre della città. Almeno coloro che sono rimasti. La maggior parte si allontana verso campi profughi più sicuri. Dove aspettare che tutto si fermi. Che la guerra finisca. Che la loro vita ritorni quella di prima. Ma soprattutto che il loro diritto all’essere trattati da uomini riaffiori. I cittadini rimasti in Siria non si aspettano più niente dalla vita. Accettano la morte per come è. Sperano solo che i loro cari riescano a sopravvivere. Affrontano il dolore a testa alta, aspettando che una bomba cada sulla loro casa o magari che un gas tossico ponga fine alla loro sofferenza. Non esiste modo di agire giusto o sbagliato. Si può solo scegliere di combattere o di aspettare, quando il proprio paese è diventato un campo di battaglia. Madri raccolgono i figli sotto le macerie, padri si sacrificano per la propria famiglia che parte per un rifugio, rimanendo a combattere per la libertà del proprio paese.
Coloro che restano sono diventati un’unica famiglia. Uomini salvano bambini che neanche hanno mai visto e donne curano ferite di persone mai toccate prima. Si crea un’unione nel dolore che è l’unico amore rimasto che si possa dare o ricevere. La stanchezza nei volti di tutti coloro che hanno vissuto questi momenti è indicibile. Non è umana. È stanchezza nei confronti della propria vita, che, al contrario, dovrebbe essere il dono più grande che si possa avere.
E così i civili sono le vere vittime di questa guerra. Coloro che hanno perso la loro casa, la loro famiglia, la loro stessa umanità. Alcuni di loro sperano in un attacco degli Stati Uniti , altri confidano ancora nell’esercito siriano libero. Ma a conti fatti non desiderano più nulla. La loro vera ed ultima speranza è quella di rimanere vivi. Per quelli che ancora possono sperare. Sì, perché, a conti fatti, sono ormai più di 100.000 le vittime della guerra civile. E ogni giorno che passa è un allontanamento ulteriore della società esterna da quelle persone che chiedono solo una cosa: pietà.
E allora, invece di chiedersi sul da farsi, se attaccare Assad o se ascoltare l’ONU che vota per la pace, bisognerebbe rendersi conto che l’indifferenza mostrata nei confronti di queste persone è la cosa per cui bisognerebbe vergognarsi veramente.
Carolina Sprovieri 3B