<<Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato.>>
15:16. Oggi sono addirittura in anticipo. Lo spettacolo inizia alle 15:30, mi prendo il tempo per osservare il teatro Carignano con le sue poltrone rosse e i drappeggi dorati. La fila dove sono seduta è ancora vuota, a parte una coppia alla mia destra che saluta con la mano e un sorriso a trentatré denti un gruppo di persone sulle balconate soprastanti. Solamente alle 15:26 il posto accanto al mio viene occupato, mentre la sedia alla mia destra rimarrà vuota. Ci posso mettere la borsa e la giacca, molto bene. La sala è quasi piena, signori che chiacchierano del più e del meno, peli bianchi e qualche giovanissimo in felpa a disagio in un contesto che non sente proprio.
Suona la campanella. Buio. Ora esistiamo solo io e il palco.
La neve scende dolcemente accompagnata da un coro di voci.
“Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
«Wstawac’»;
E si spezzava in petto il cuore.”
Un uomo, capelli brizzolati, se ne sta in piedi. Solo. In mezzo al palco. Una valigia in mano. Parla. <<A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, piú o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo piú questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e scoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo>>.
Una riflessione scientifica, fredda, glaciale, imperscrutabile, come il referto medico di un morto. Una dettagliata considerazione prettamente logica sulla pura follia. Spiazzante.
<<Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943…>>. Continua così il lungo monologo di Primo Levi, l’uomo solo sul palco. Lì, nel teatro della sua città natale, racconta del suo temporaneo internamento in un campo a Modena, dell’ultima sera prima di partire per la Polonia. C’è della biancheria di bambini appesa al filo di ferro, stesa ad asciugare, pronta per essere messi in valigia. <<Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?>>.
Giunge il momento del viaggio in treno, schiacciati peggio delle bestie, senz’acqua né cibo. Un nome in testa: “Auschwitz”. Quattro lunghi e interminabili giorni. <<Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo piú paura>>.
Come si chiama quella donna? Mi perdo nei miei pensieri. Forse Primo l’ha detto, ma mi è sfuggito. Vorrei tanto ricordarmelo. Quella donna è sparita inghiottita dalle tenebre dell’inferno.
Primo Levi viene selezionato insieme a pochi altri uomini validi. Gli altri, le donne, i bambini, i vecchi, vengono portati all’annientamento: non sono economicamente utili. Insieme agli altri italiani, Primo viene spogliato, rasato, buttato nudo sulla neve, deriso, vestito con stracci a righe e zoccoli di legno. <<Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Piú giú di cosí non si può andare: condizione umana piú misera non c’è, e non è pensabile. Nulla piú è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di far sí che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che cosí sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle piú piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il piú umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo. Si immagini ora un uomo a cui, insieme alle persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso umano, nel caso piú fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.>>
<<Häftling: ho imparato che io sono uno Häftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro.>>. Primo Levi diventa un fantasma di Auschwitz, per la precisione inizia a lavorare nella fabbrica di gomma sintetica di Buna-Monowitz. I giorni si susseguono tutti uguali. Ogni mattina può essere l’ultima. Bisogna imparare a sopravvivere. Gli uomini, gli stessi prigionieri, sono nemici: si rubano il cibo, si picchiano per una fetta di pane. Non c’è un momento di tregua. Lavorano tutti in condizioni disumane, in continuazione. Le razioni sono misere. <<Ma come si potrebbe pensare di non aver fame? il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente>>. Le SS non si vedono se non di rado. Chi comanda sono i prigionieri con un triangolo verde cucito sulla camicia a righe, i criminali. Terribili e disumani.
Tutto sembra un’immensa presa in giro. Una fanfara suona ogni mattina. <<I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente. Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è piú volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa dei muscoli sfatti. I tedeschi sono riusciti a questo. Sono diecimila, e sono una sola grigia macchina; sono esattamente determinati; non pensano e non vogliono, camminano. >>. Lo stesso lavoro massacrante non ha una vera motivazione: dalla fabbrica infatti non uscirà mai nemmeno un solo grammo di gomma sintetica. Agli internati è concesso di lavarsi, ma con acqua sporca, tanto che Primo decide che pulirsi in quelle condizioni ha poco senso. Arriva qui la ramanzina di un suo compagno, Steinlauf: <<Appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché cosí prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire>>.
I prigionieri dormono in due su una cuccetta larga 70 centimetri. È proprio in questo momento che sento provenire alla mia sinistra una voce di una ragazza, che meravigliata sussurra: “ma come, due su un letto?”. Mi giro senza parole. Come fa a non esserne a conoscenza? Mi tornano alla mente i dormitori visti con i miei stessi occhi a Dachau e Auschwitz, miseri scompartimenti in legno ricoperti di paglia e una ridicola coperta per sopravvivere all’inverno. Davvero la gente non sa nulla?
In mezzo a questo male, Primo incontra Lorenzo. <<Un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso. Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo cosí piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi. Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo>>.
Passano i mesi. Alla fabbrica servono Specialisti in chimica. Primo Levi è un laureato in chimica, si offre volontario: è risaputo che agli Specialisti sono garantite condizioni di vita leggermente migliori. Per diventarlo tuttavia deve passare un esame di chimica. Un esame? Ho sentito bene? Nell’universo del Lager è tutto così assurdo e senza senso. Primo ha la testa piena di nozioni, prova la stessa ansia provata anni prima, sente l’orgoglio della sapienza. Primo è tornato per pochi istanti un uomo.
Ovviamente viene selezionato per diventare Specialista. È in questa occasione che incontra Pikolo, un giovane e gentile francese, che gli chiede di insegnargli l’italiano. Riescono a trovarsi per un’ora di tempo, un’ora di pausa in quell’inferno. A Primo viene in mente, senza una ragione apparente, il Canto di Ulisse della Divina Commedia. I ricordi affiorano, viene preso dalla passione. Adesso sente un bisogno vitale di spiegare a Pikolo cosa intendesse Dante nella celebre terzina:
“Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e canoscenza.”
Ma l’ora è finita. Bisogna tornare alla crudele realtà.
Autunno 1944. Primo non avrebbe mai pensato di sopravvivere in tempo per vedere un altro inverno. Eppure, eccolo lì, tra i sopravvissuti. È giunto il tempo della selezione. Un sottufficiale delle SS deve scegliere, al solo sguardo, chi è ancora utile e degno di vivere e chi è destinato alle camere a gas. Primo sopravvive. <<Si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare piú niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai piú? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn>>.
Ormai Primo Levi è diventato il suo racconto. Raccontare è la sua vita, la sua vita è raccontare. Testimoniare.
Gennaio 1945. Si ammala di scarlattina e viene ricoverato al Ka-be, l’infermeria. In quegli stessi giorni l’Armata Rossa si avvicina in modo pericoloso al campo di concentramento. I tedeschi decidono di evacuare tutti i prigionieri capaci di camminare. Primo non è tra questi. Alla marcia di evacuazione di Auschwitz partecipa anche Alberto, il suo migliore amico, pieno di speranza e fiducia. Alberto non sopravvive alla Marcia della morte.
Primo è tra i pochi sopravvissuti che incontrano i sovietici il 27 gennaio 1945, giorno della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau, data che diventerà il “Giorno della memoria delle vittime della Shoah”.
Primo Levi non dimenticherà mai la voce del Lager, il grido “Wstawac”, “Alzarsi”.
Le luci si accendono. Applausi. Mi sento confusa.
Siamo sopravvissuti. Siamo? Per un istante io ero lui, lui era me. Mi vergogno di me stessa. Come posso anche solo pensare di provare quello che ha passato lui? Un dolore inavvicinabile. Un dolore inspiegabile. Un dolore che non si può condividere. Un dolore che merita rispetto e silenzio.
La sua esperienza adesso è mia, come è mio il dovere di trasmetterla. Adesso provo quasi una rabbia per la sedia alla mia destra rimasta vuota. Avrebbe dovuto esserci un uomo li, ad ascoltare, a capire, a rendersi conto di che livelli può raggiungere il male, sotto quali facce può nascondersi. Non la mia borsa, la mia insulsa borsa.
Sento voci intorno a me. “Alla fine si è suicidato, molti anni dopo”. Lo sapevo già naturalmente. Nessun giudizio. Non è immaginabile l’angoscia che tormentava i suoi sogni, la parola “Wstawac'” che rimbombava nelle sue orecchie.
Primo Levi è morto, le sue parole no. Torna in vita ogni giorno, sui palchi dei teatri, sulle pagine dei suoi libri, sui cuori di chi ancora ricorda e non smetterà a farlo. Il dovere di ricordare, il dovere di trasmettere, questo è ciò che ognuno di noi ha l’obbligo morale di fare. Con il dolore, con l’angoscia che possono solo scalfire il male che milioni di persone hanno subito, soli e senza speranza, nell’inferno sceso in terra.
Mi aggiungo alla calca per uscire. Vedo dalle porte aperte la luce di piazza Carignano. Una luce strana, dopo tutto quel buio. Le persone intorno a me parlano di nuovo del più e del meno, sento risate. Mi viene da vomitare. Non vedo l’ora di uscire.
È proprio alla fine di tutto, quando sto per uscire all’aria fresca, che sento una signora, nella sua ingenuità più umana: “Ci deve essere una ragione a tutto questo”.
Una ragione? Una ragione a Questo? A Questa follia, a Questo male, a Questa bestialità inumana? A Questo genocidio, a Questa vergogna, a Questa immensa ingiustizia che non ha termini per essere descritta?
Un perché a Questo, mia cara signora, a tutto Questo? Un perché non esiste.
“Ora abbiamo ritrovato la casa,
II nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
II comando straniero:
«Wstawac’».”
Alzarsi.
Elisa Buglione-Ceresa