La difesa della libertà di espressione più che una convinzione morale si è trasformata in un fenomeno di massa. Grazie alla libertà di opinione, si è trovata una valida motivazione per eliminare ogni freno alla volontà di comunicare agli altri il proprio pensiero nel modo ritenuto da ognuno più appropriato (discutibile e non da tutti condiviso, a volte). Ciò che inizialmente nasce come una difesa dell’uomo, risulta essere in certi casi proprio ciò che porta alla morte. Si tratta di casi estremi, ma esistenti: l’attentato del 7 gennaio 2015 alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo ha posto l’argomento al centro di grandi discussioni. È giusto imporre dei limiti ad un diritto fondamentale ed universale? Nel caso in cui i limiti servano, come deciderli? Se qualcuno fosse ad essi contrario, avrebbe la possibilità di farlo sapere alle comunità e di combattere per esso? Il diritto alla libertà di opinione è un paradosso. Anche perché spesso le persone, nell’intento di difenderlo, lo infrangono. Charlie Hebdo è diventato il simbolo della libertà di espressione: non si fa problemi a realizzare vignette satiriche, prendendo di mira un po’ tutti, esprimendo opinioni irriverenti ed offensive. In questo modo, però, priva coloro che prende di mira del diritto di essere rispettati per la loro opinione. L’esempio emblematico è la vignetta per la quale Charlie Hebdo ha subito l’attentato: Maometto, tenendo il Corano in mano, viene colpito da una serie di pallottole; la scritta sulla vignetta recita: “Le Coran c’est de la merde”. La satira va bene, ma fino ad un certo punto. Affermando che “il Corano fa schifo”, i giornalisti di Charlie Hebdo negano un diritto fondamentale ai musulmani: offendendoli e offendendo ciò in cui credono li privano del diritto di non essere molestato per la propria opinione (art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo). Inoltre si sono spinti al di là da ciò che è l’offesa: l’umiliazione. C’è però una bella differenza tra libertà d’espressione e libertà d’offesa. Se certo questo non è una legittimazione delle azioni degli attentatori, che non possono reagire nel modo in cui hanno fatto, rende per lo meno più chiaro il motivo per cui l’attentato è avvenuto. Per di più, serve a mettere in discussione il diritto in sé, che estremizzato, finisce per diventare negazione di se stesso. Imporre dei limiti ad un tale diritto, però, non è compito semplice. C’è chi, infatti, crede che la libertà di espressione non debba essere limitata in alcun modo, perché altrimenti non sarebbe più una libertà in tutto e per tutto. C’è chi pensa che offendere ne sia parte, ad esempio. Non ponendo barriere entro le quali rimanere, però, si “inciampa” in situazioni che potrebbero facilmente essere evitate. Lasciare una libertà totale, infatti, non è possibile: i limiti non servono davvero a “limitare”, bensì sono necessari per proteggere la libertà stessa. La domanda fondamentale rimane. Chi può stabilirli? Le stesse istituzioni che hanno stabilito quelli già esistenti. L’articolo 19 della Dichiarazione continua: L’esercizio delle libertà previste al paragrafo 2 del presente articolo comporta doveri e responsabilità speciali. Esso può essere pertanto sottoposto a talune restrizioni che però devono essere espressamente stabilite dalla legge ed essere necessarie: 1) al rispetto dei diritti o della reputazione altrui […]. Deve essere la legge ad intervenire, quindi, quando il limite viene oltrepassato, non con un intervento a priori (negando la libertà di offendere), bensì a posteriori, cioè punendo per l’offesa arrecata.
L’imposizione di limiti è però spesso malintesa, nonostante sia in parte già affermata. Dopo eventi palesi come l’attentato alla sede di Charlie Hebdo (per citarne uno dei tanti), la gente si trasforma, senza neanche rendersi conto di ciò che sta facendo, in una comunità di convinti difensori della libertà di espressione. Con il 7 gennaio del 2015, ad esempio, l’argomento è stato portato al centro dell’attenzione. Il mondo si è ben presto schierato dalla parte del giornale satirico, e a ragione. Non è di certo questa la decisione da mettere in discussione. Tuttavia, la situazione è degenerata. Charlie Hebdo è diventato un’icona, simbolo di grande coraggio, difensore supremo della libertà d’espressione. La popolazione ha preso però come modello le persone sbagliate: i giornalisti sono stati i primi, con le loro vignette provocatorie e offensive, a non rappresentare proprio ciò di cui sono diventati simbolo. Charlie Hebdo, infatti, difende la libertà d’espressione nella sua accezione più negativa, esprimendo le proprie opinioni senza timore, ma non rispettando in alcun modo quelle degli altri. Nonostante questo, però, i disegnatori di vignette sono diventate figure idealizzate, deformate in ciò che non sono. Questo perché la difesa della libertà a volte è solo un fenomeno di massa, invece che una convinzione morale. Lo dimostra il fatto che, affermando di essere contrari alle vignette satiriche del giornale, si viene presi di mira, o persino definiti sostenitori del terrorismo. Accuse che, ovviamente, non hanno alcun fondamento e che potrebbero essere evitate senza difficoltà se solo si facesse uno sforzo in più e non ci si limitasse a seguire il flusso. Come abbiamo capito, infatti, la libertà d’espressione e di opinione non è un terreno semplice, e prendere una posizione a riguardo lo è ancor meno: “Chi avrà visto nelle precedenti righe una giustificazione dell’abominevole massacro perpetrato a Parigi […] è nella morsa del paradosso: mossi dall’emotività […] le attribuiranno (all’opinione) illegittimamente uno sforzo di comprensione nei confronti di quello che rimane un atto vile e barbaro. Ma l’accusa di giustificazionismo è un abile gioco di prestigio il cui tentativo ultimo è quello di imporre il silenzio. Così, la difesa della libertà di espressione si converte nella sua negazione.” (Samuele Mazzolini, Viva la libertà di espressione: abbasso Charlie Hebdo!, Il fatto quotidiano, 12 gennaio 2015)
Isabella Scotti