Il numero annuale di suicidi in carcere aveva registrato il suo apice nel 2009, ma dalla scorsa settimana ha segnato un nuovo triste record: ben 78 dall’inizio dell’anno, di cui 4 poliziotti penitenziari.
La maggior parte delle vittime aveva meno di 30 anni, era la prima volta che “finiva dentro” e soffriva di problemi mentali, una condizione che rende di fatto incompatibili con il carcere.
Simone Melard, per esempio, aveva 44 anni, era in carcere per aver rubato un telefono e un portafoglio che aveva poi restituito di sua volontà. Secondo alcune testimonianze viveva di elemosina e sovente veniva picchiato dai bulli del quartiere.
Una storia molto triste, come tutte le altre, che diventa paradossale se pensiamo che l’articolo 27 della nostra Costituzione dice chiaramente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Parole ben lontane dai fatti per Simone e per tutti gli altri, nei confronti dei quali il carcere ha rappresentato solo la definitiva disperazione.
In più, nella maggior parte dei casi, i suicidi hanno avuto luogo nelle case circondariali pensate per ospitare detenuti con pene inferiori ai 5 anni o che sono in attesa di giudizio, ma che di fatto sempre più spesso ospitano anche detenuti pericolosi, con pene definitive e non certo legate a reati minori. Un ambiente dunque rovinato dalla presenza di criminali di lunga data che non aiuta certo a percepire il carcere come un luogo di rieducazione o di riscatto.
Il numero dei carcerati, inoltre, supera regolarmente la capienza massima delle strutture, a volte anche del 150%, e la polizia penitenziaria e gli psicologi non bastano per tutti i detenuti.
I numeri sono sconvolgenti: 11 detenuti su 100 hanno diagnosi psichiatriche gravi; 1 su 5 assume stabilizzatori d’umore, antipsicotici e antidepressivi e 4 su 10 usano regolarmente sedativi e ipnotici. Ci si suicida 20 volte di piú dentro che fuori.
La Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sostiene che queste morti e le condizioni di lavoro degli agenti penitenziari siano indegne per un Paese civile e ritiene urgente un nuovo piano di edilizia penitenziaria per cominciare perlomeno a arginare i decennali problemi del sistema carcerario italiano. Il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, tuttavia sostiene che non sia una soluzione efficace: “Negli ultimi 25 anni – dice – la capacitá degli istituti penitenziari è aumentata di 15 mila posti ma è aumentato anche il tasso di criminalitá e quindi di detenuti. I posti non basterebbero mai, costruire nuove carceri non servirebbe a niente. Bisognerebbe ripensare alle politiche penali, fare corsi di reintegramento e dare maggiore aiuto psicologico ai malati mentali”.
Emma Moro