Stress: questo sconosciuto. In cosa consista a livello fisiologico non si sa ancora con certezza. Quel che è certo è che, nell’immaginario collettivo, le cause alla base di questo fenomeno si decuplicano di anno in anno su riviste e programmi televisivi di dubbia competenza.
Da profana in materia, ricordo di aver letto qualche tempo fa (su un giornale il cui nome francamente mi sfugge del tutto) un articolo particolarmente affascinante; trattava di uno studio riguardo i possibili fattori scatenanti della sintomatologia da stress: ansia, insonnia, nervosismo, etc …
Il corpo della stragrande maggioranza degli animali, in caso di situazioni pericolose, anomale o di allerta, produce automaticamente delle sostanze stimolanti che preparano il corpo stesso ad un immediato sforzo fisico. Ne sono un esempio l’aumento del battito cardiaco e la dilatazione delle pupille, accompagnati da una generale velocizzazione dei riflessi.
L’uomo non fa eccezione e sono molte le situazioni nelle quali questo fenomeno si manifesta platealmente; basti pensare a quando, scesi dalle montagne russe, ci si sente euforici ed attivi, o al classico batticuore dovuto ad uno spavento improvviso.
Quello che però risulta meno evidente è il comportamento del nostro corpo davanti a tante innocue situazione quotidiane, che in nostro cervello inconsciamente cataloga come “negative”: la dimenticanza del portafoglio, l’ansia da prestazione prima di un esame, le scadenze da rispettare. Nel mondo cittadino del 2013 sono questi i piccoli pericoli giornalieri che minacciano la nostra serenità e, in un certo senso, il nostro corpo lo percepisce; comincia difatti a produrre, anche se in quantitativi minori, tutte quelle sostanze che una volta ci permettevano di sopravvivere nella giungla.
Qual è il problema? Che, salvo una corsa disperata per prendere il pullman, oggigiorno queste situazioni non si risolvono con una prestazione fisica. In sostanza, il nostro corpo prepara degli stimolanti che poi non vengono smaltiti. Ed ecco (forse) la causa del male del secolo; questa teoria effettivamente spiegherebbe sia l’agitazione di fondo che caratterizza molti aspetti di una “malattia” tutta cittadina, sia il grosso aiuto che lo sport e l’attività fisica danno nella lotta ai sintomi da stress, permettendo al nostro corpo di sfogarsi nel gesto che era stato preparato a compiere.
Non si tratta solo di reagire a situazioni di pericolo; la società odierna ha reinterpretato radicalmente quelle che sono le esigenze e le dinamiche della vita dell’uomo-animale, e se il nostro cervello (la nostra razionalità insomma) accetta e si adatta alle restrizioni e alle convenzioni impostesi in un arco di tempo relativamente breve, il nostro corpo fatica ancora per molti aspetti ad uscire dalla giungla.
Istinti basilari, che oggi si esprimono in maniera esplicita nel resto del regno animale, nell’uomo sono stati spesso repressi o imbrigliati a beneficio della convivenza civile, ma questo processo non ha portato alla loro scomparsa: il tentativo di inabissarli ha causato quella somatizzazione che già Freud aveva teorizzato con fortuna nei primi decenni del Novecento, quando aveva visto alla base dei disturbi nevrotici dei problemi di ordine sessuale.
Poco prima della psicanalisi, diversi intellettuali focalizzarono ed espressero con particolare nitidezza queste due nature contrapposte, razionale ed istintiva.
Stevenson lo fece con una rappresentazione letteraria degna di nota non tanto per i caratteri esplicitamente negativi che attribuì all’animalesco Mister Hyde, ma proprio per il fatto stesso che fosse Hyde e quindi, fuor di metafora, hide, nascosto dalle convenzioni sociali nelle quali l’irreprensibile Dr. Jackill riuscì ad omologarsi perfettamente solo dopo aver trovato una valvola di sfogo per quegli istinti violenti e ferini in agguato dietro l’apparente rispettabilità. Sebbene infatti la romanzata lotta tra il bene ed il male sfoci un una bipartizione quasi manichea, non bisogna dimenticare che protagonista e nemesi sono l’esplicitazione del conflitto interiore di una sola creatura: l’uomo. E se paradossalmente l’autore sembra suggerirci che un avvento totale di Mister Hyde non solo sarebbe possibile, ma sarebbe anche probabile, fin dall’inizio è esclusa la completa predominanza del Dottor Jackill, la cui incompletezza, la cui insoddisfazione portano alla ricerca di uno sdoppiamento. Quasi a voler sottolineare l’impossibilità del dominio della ragione sociale.
Meno moralista (forse perché non abitò nell’Inghilterra ottocentesca) è la visione di Nietzsche, che incanalò la distruttività della creatura di Stevenson nel principio dionisiaco, una costante antropologica che, sia pure sopita, costituisce il substrato di ogni uomo. Un’idea decisamente più sofisticata: la contrapposizione con l’antitetico principio apollineo, infatti, non si può semplificare come una lotta del bene contro il male. Ci si trova davanti ad una complementarietà di due elementi che possono essere intesi positivamente solo se associati e compensati reciprocamente, solo se non si escludono a vicenda. Istinto caotico da un lato, ordine razionale dall’altro. Come a testimoniare che l’uomo non è in grado di isolarsi in uno solo dei due modelli comportamentali ma ha bisogno di entrambi per uscire dallo stato di natura senza dimenticarsi di far parte della natura stessa. Il filosofo sembra concordare con Stevenson nel vedere un’insana prevalenza dell’apollineo a partire dalla Grecia si Socrate, una prevaricazione che porta conseguentemente alla decadenza progressiva di una civiltà, quella occidentale, che in nome della logica e dell’ordine rinuncia a quegli impulsi irrazionali ma vitali che stanno alla base della voglia di vivere. All’uomo tragico, dionisiaco, portato a dire “sì” alla vita, subentra un uomo teoretico, portato a violentare la vita con “la sferza dei suoi sillogismi”.
Infine (ma l’elenco sarebbe molto più lungo) Poe, il maestro della perversione. Uno dei primi, con Maupassant, a non rifugiarsi nell’oggettivazione letteraria del disagio, del malsano, del perverso insito in ogni uomo. Figlio di un gotico che aveva ancora bisogno di rappresentazioni esplicite del male e della paura (fantasmi, demoni, streghe, mostri), alla fine del diciannovesimo secolo è ormai pronto per ammettere che la violenza, il sadismo non sono oggetti esterni, sono istinti interni, propri anche del più onesto dei cittadini. Con maestria ne “Il gatto nero” Poe dipinge in poche pagine quella perversione, quell’immotivata voglia di fare del male che non si può combattere razionalmente proprio perché non è razionale, quella malsana e spaventevole pulsione che sembra riportarci a quando la violenza era un modo per affermare la nostra presenza sulla terra, per ottenere un riconoscimento, per rinforzare la nostra identità. Quando la violenza era un istinto se non giustificato, quantomeno necessario. Oggi la società civile ci permette di farne a meno, ma forse la sequenza di impulsi nervosi nel nostro cervello, quella sequenza che ogni tanto ci fa pronunciare in modo nemmeno troppo iperbolico “Io lo ammazzerei”, non è della stessa opinione.
L’Ottocento, insomma, ebbe già il sentore che dietro lucida vetrina sociale ci fosse una bottega nella quale permanevano in ombra molte pulsioni negate ma mai del tutto sopraffatte. Violenza, sessualità, volontà di dominio: tutti aspetti che concettualmente siamo riusciti a dominare, ma che la selezione naturale ha impresso a fuoco nel nostro del DNA nel corso di secoli e secoli. Ci vorrà altrettanto tempo prima di trasformarci in creature di pura ragione?
Eugenia Beccalli