Consideriamo tutti i vestiti che abbiamo in casa, comprati per soddisfare un capriccio momentaneo, l’etichetta ancora attaccata. Guardiamo il nostro smartphone nuovo fiammante, ultimo modello, terzo telefono nel giro di due anni. Osserviamo gli alimenti ancora confezionati uscire dai grandi supermercati, imballati come per esser comprati ma destinati all’inceneritore. Pensiamo a quante cose inutili abbiamo, a quanta poca importanza diamo a ciò che realmente serve.
Negli Stati Uniti, come ci ricorda un recente studio pubblicato su Internazionale, in una casa mediamente sono presenti 300mila oggetti. Siamo circondati da tonnellate di inutile cianfrusaglia, tanto essenziale al momento dell’acquisto quanto dimenticata il giorno dopo.
Per millenni abbiamo vissuto con il poco davvero necessario, ottenuto a fatica, e apprezzato. Ora, invece, quello che abbiamo non significa più nulla: si può buttare, sostituire, non vale la pena aggiustarlo o ripararlo, perché niente è più facile e più gustoso di comprare la novità.
L’avvento delle moderne tecnologie è contemporaneamente causa e conseguenza del consumismo: la produzione di massa soddisfa il bisogno dell’inutile, e i profitti che questo porta rendono possibile la ricerca, necessaria per incrementare la fabbricazione di oggetti.
Il vero e proprio dramma sta nel fatto che il sistema economico mondiale ha bisogno del nostro bisogno quasi compulsivo di “cose”, perché vive della loro produzione. Abbiamo legato le nostre vite all’economia dell’inutile, creando un drammatico paradosso: se dicessimo basta, se ci organizzassimo per fare un uso razionale delle risorse, milioni di operai, impiegati, venditori, imprenditori, avrebbero gravi problemi. Non possiamo, però, neanche permetterci di procedere a questo ritmo di consumo, perché è insopportabile per il pianeta.
Lo studio Mind your step, portato a termine da una rete di 74 organizzazioni ambientali già nel 2015, rivela il quantitativo di risorse necessarie per produrre beni che consumiamo abitualmente (vestiti, prodotti tecnologici e cibo). Per esempio, sono decine le tonnellate di acqua e i metri cubi di terreno che vengono sfruttati per produrre un singolo smartphone. Grandi aziende, come la Kraft, solo per la produzione di cibo a base di cioccolato utilizzano porzioni di territorio grandi come il Belgio e consumano migliaia di miliardi di litri d’acqua.
È dunque evidente che le risorse del globo non sono sufficienti a soddisfare le richieste (in gran parte non necessarie) di sette miliardi di persone. Questo crea un enorme squilibrio: il 12% della popolazione mondiale vive in Europa e negli Stati Uniti, ma consuma il 60% dei beni del mondo, mentre il 33% più povero, africano e asiatico, si accontenta del 3% delle risorse.
Come scrive il commediografo statunitense Robert Orben: “la prossima volta che ti viene voglia di lamentarti per qualcosa, ricordati che il tuo bidone dell’immondizia probabilmente è nutrito meglio del trenta per cento della popolazione mondiale.”
Gabriele Pujatti