Tra gli ospiti più importanti del Convitto Umberto I di Torino quest’anno c’è stato il prof. Claudio Giunta, docente di Letteratura Italiana all’Università di Trento, che mercoledì 26 settembre ha tenuto un incontro in Aula Magna su una delle questioni più dibattute del sistema scolastico italiano: come viene trattata la cultura umanistica a scuola e quale futuro avrà? La risposta non è semplice e tocca più ambiti della formazione scolastica, tra i quali spicca la scrittura, oggetto dell’ultimo saggio del professore. Si può imparare Come non scrivere? In un momento come questo in cui la cultura umanistica sembra sempre più distante dal grande pubblico sorge spontanea una riflessione su un tema particolarmente caro ai docenti e il saggio di Giunta parte proprio da un pensiero quotidiano nato tra le mura scolastiche.
Uno studente di Lettere che sta per aggiungere l’ennesima firma al libretto degli esami e già sente il peso della corona d’alloro sulla testa, per esempio, non si cura del fatto che dietro un percorso brillante possano nascondersi lacune pregresse. La ragione è semplice: in fondo, sembra che neanche i docenti se ne curino troppo. «Avrebbe dovuto imparare a scrivere decentemente molti anni fa, ma non ha imparato, e adesso è tardi», scrive il prof. Giunta sul suo blog. Dargli 30 sarebbe come non riconoscere che “scuola” non si scrive con la q, ma d’altro canto non si può nemmeno bocciarlo. Il motivo? Bocciare all’Università significa bloccare una carriera o addirittura stroncarla. E come se questo non bastasse, la scelta di non bocciare è legata anche a una questione pratica: i finanziamenti del MIUR dipendono anche dal tempo impiegato dagli allievi per arrivare alla tesi e di conseguenza non è un bene avere troppi studenti fuori corso.
Esiste però una ragione di fondo molto più semplice: non si giustifica la bocciatura con qualche errore formale. Difficilmente uno studente accetterà che la sua tesi di laurea di 50 pagine e il suo percorso brillante vengano gettati via per una preposizione sbagliata o una subordinata mal costruita. E così, esame dopo esame, si avvicina al traguardo finale con serenità.
A questa tacita legge del “lasciapassare” si affianca la cosiddetta “politica delle porte aperte”, e cioè l’assenza del numero chiuso per la facoltà di Lettere. Le conseguenze? L’ammissione diventa una garanzia sia per chi ha imparato a scrivere sia per chi, invece, avrebbe dovuto farlo.
Si potrebbe pensare che il problema si esaurisca nell’incompetenza del singolo e che rimanga legato alle sue capacità, ma così non è. Basti pensare che il principale sbocco lavorativo dopo un percorso di studi umanistici è l’insegnamento: se un insegnante non ha imparato a scrivere alle medie, alle superiori e neanche all’università, come gli sarà possibile insegnare ad altri qualcosa che lui stesso non ha imparato a fare?
In quel «sistema vischioso»che tira le redini della quotidianità scolastica sembra non esserci più spazio per la forma, ma solo per il contenuto. Come non scriverenasce proprio da qui, da una ferita del sistema che solo la scuola può sanare. Il prof. Giunta parte da tre leggi che indicano i tre cardini del saper scrivere: studio, impegno e chiarezza. Se i primi due punti sono la condicio sine qua nondi un buon testo, l’ultimo si lega ad un vizio secolare della prosa italiana: il rifiuto della semplicità. L’Italiano è infatti una lingua «malata dal punto di vista della chiarezza», che si trasforma nella lingua artificiale dei temi e della burocrazia, ornata da barocchismi e ampollosità. Tra la tendenza al patetismo e quella a prendersi troppo sul serio si sente come l’esigenza di «indossare una tunica». Ma si sa, «l’Italia è un Paese retorico».
Le questioni che ruotano attorno al destino della scrittura nel sistema scolastico italiano, però, perdono di significato se si considera il problema di fondo, e cioè «che saper scrivere non è più una priorità». In un mondo in cui il best-seller dell’anno è la biografia di Cristiano Ronaldo e Benedetta Parodi vende 2 milioni di copie, infatti, scrivere bene non è poi così importante. Con l’avvento dei social network, tutti possono scrivere ed essere letti da migliaia di persone in un batter d’occhio. Scrivere rischia così di diventare un’attività ordinaria e senza troppe pretese. “Saper scrivere”, invece, diverrà una «virtù privata».
Elena Catalanotto