Quattro chiacchiere … tra omonime! Intervista a Michela Murgia

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L'autrice Michela Murgia

L'autrice Michela Murgia

I giornali esistono anche per informare sulle – pochine … – belle iniziative che nonostante tutto si svolgono nella nostra regione: sono ormai alcuni anni che il Salone del Libro ha proposto il progetto “Adotta uno scrittore”. La nostra adottata di quest’anno, la nostra fill’e anima direbbe lei, è stata la scrittrice sarda Michela Murgia, che ha svolto il progetto in IV D, incontrando due volte i ragazzi per parlare loro dei suoi libri. In occasione della sua ultima visita a Torino, lunedì 7 giugno, dopo un appetitoso buffet abbiamo trovato il tempo per una chiacchierata in biblioteca.

 

Com’è nato il personaggio dell’Accabadora?

Non è nato da me, appartiene alla tradizione e alle leggende sarde. Io gli ho solo dato un corpo e un’identità: le leggende ci danno la funzione di un personaggio e fatti che lo riguardano e poi lo scrittore lo rende una persona, e scrive la motivazione dei fatti.

Come mai parla di paura di usare il suo sardo?

Ci sono due tipi di paura che può avere chi scrive in sardo: la paura di usare le parole sarde e la paura di usare, anche in italiano, le costruzioni sarde. Marcello Fois, che è il più grande scrittore sardo contemporaneo e la persona che al fondo del libro ringrazio per avermi liberato dalla paura di usare il mio sardo, mi ha insegnato a vedere nell’essere “meticci” di linguaggio un valore, qualcosa di importante.

Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere sulla Sardegna?

Non è una scelta che ho deciso di intraprendere e ho portato a termine con determinazione, è solo che ciascuno parla – racconta, scrive – di quello che conosce. Per me è facile stare anche dal punto di vista narrativo nel contesto in cui sono a casa.

Come mai ha deciso di affrontare un tema attuale come l’eutanasia attraverso questo personaggio così particolare, questa anziana che appartiene ad una cultura così antica che a volte quasi sconfina nella magia?

Il tema del libro per me rimane la maternità, l’essere accabadora più che essere colei che conclude le soffrenze è essere una madre estrema, a mio parere nemmeno la più estrema. Una cosa che sicuramente non voglio è che il libro sia usato come raffronto con il presente, non è una cronaca e non può servire da giustificazione per nessuna opinione sull’argomento eutanasia.

Ha trovato difficoltà a scrivere sulla maternità, che è un argomento che per lei ha un significato molto particolare e personale?

No, per nulla, non ho nessun pudore per ciò di mio che può diventare la storia comune. Mi spiego meglio: i ricordi sono senza dubbio qualcosa di personale, ma è dovere dello scrittore raccontarli in una storia perché entrino a far parte della memoria, che è un ingranaggio collettivo.

Quali aspetti della sua personalità hanno avuto maggior rilievo nello scrivere il libro?

Sin da piccola ero portata a dire bugie. Se lo si fa per molto tempo, poi si viene chiamati scrittore.

Era una decisione che era dentro di lei da molto tempo o è stata una decisione recente quella di scrivere questo libro?

Io scrivo da soli quattro anni, questo è il mio terzo tentativo di scrittura pubblicato. Le storie nascono dal contesto, non da me, ognuno cresce nel proprio contesto e poi ne fa nascere una storia. In letteratura non si è figli unici e soprattutto si hanno padri e madri, che di solito sono nel contesto in cui si nasce.

Secondo lei, quale è il più grande riconoscimento per uno scrittore?

Io giro molto e incontro i lettori, ma è soprattutto per e-mail che le persone mi dicono ciò che magari non avrebbero mai il coraggio di dirmi a voce. Mi capita comunque ogni incontro con i lettori di ricevere il grande premio di essere stata letta. Ma forse la cosa in assoluto più bella che mi sia mai capitata è stata una casa famiglia di Seveso che si occupa di adolescenti in difficoltà che ha ideato un progetto di affido dolce che si ispira al fill’e anima. Si chiama progetto Accabadora e quest’ “invenzione” mi ha reso felice come ricevere il Premio Nobel.

Lei ora è una dei finalisti del premio Campiello. Ha mai pensato di scrivere per vincere?

Sì, ma non premi. Nessuno può pensare di vincere, a meno che non sia un fanatico. Non mi emozionano i premi, sono molto più importanti i lettori, che spesso ti leggono di più se non hai mai vinto. Il mio lavoro non è vincere premi, è trovare parole per raccontare e qualcuno che le legga.

Secondo lei esiste un momento in cui si comincia a scrivere?

Io non ho mai scritto e non ho mai mandato nulla a nessun editore, ho cominciato a scrivere quando l’impellenza di raccontare, come dice Umberto Eco, era tale da costringermi a farlo.

 A cura di Chiara Murgia (1C)

L'ultimo romanzo di Michela Murgia

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