Sono le dieci e trenta del ventiquattro marzo, e un aereo sorvola le Alpi.
È un Airbus A320 della compagnia tedesca Germanwings, un’economica filiale della celebre Lufthansa.
È l’aereo di cui si parlerà, a partire dalle ore successive.
L’aereo sopra i cui resti saranno versate lacrime di padri, fratelli, mogli, figli.
L’aereo le cui macerie ora giacciono immobili sulle Alpi, tra il gelo del vento, sotto gli sguardi desolati delle squadre di soccorso.
Torniamo però ai fatti precedenti allo schianto, più indietro degli otto minuti che hanno portato alla tragedia.
Sono le dieci e trenta del ventiquattro marzo, a bordo ci sono centoquarantaquattro passeggeri, centocinquanta contando anche l’equipaggio.
Quarantacinque sono spagnoli, sessanta tedeschi. Tra loro anche una scolaresca di ritorno da una gita.
Due passeggeri, una madre con un bambino, sono inglesi.
Due, sono colombiani.
Uno è turco.
Di loro non si è salvato nessuno. Sono rimasti su quell’aereo fino all’impatto. Le squadre di soccorso si stanno occupando di recuperare i corpi tra i rottami dell’aereo. Ma il percorso non è facilmente percorribile, l’unica via è una strada sterrata lunga cinque chilometri, che s’infila nella stretta gola di una montagna, lì dove la torre di controllo ha ricevuto l’ultimo avvistamento radar.
Alle dieci e cinquantatrè i segnali radar smettono di arrivare. Lo schianto avviene poco dopo.
Uno schianto violentissimo, micidiale.
Uno schianto che ha distrutto il velivolo, e le vite di centocinquanta persone.
Sono le dieci e trenta del ventiquattro marzo.
L’aereo perde quota per otto minuti, sempre più vicino alla dura roccia delle montagne.
Poche ore dopo, gli abitanti della zona diranno di averlo visto volare basso, di averla creduta un’esercitazione militare, poi un tentativo di atterraggio.
I passeggeri si accorgono del pericolo solo a pochi metri da terra e urlano.
E’ un grido comune che riecheggia tra i sedili economici. Una frazione di secondo dopo, non resta più nulla.
«Non era in picchiata, non veniva giù perpendicolare» racconta all’inviato della Stampa il pastore Del Pais, abitante della zona, che alzando gli occhi al cielo ha scorto il velivolo. «Era come se stesse cercando un atterraggio disperato». Dice anche di aver sentito il forte rumore dei motori, per poi poco dopo non sentire altro che il silenzio della montagna.
Sono le dieci e trenta del ventiquattro marzo, e ormai è questione di minuti.
Ma questo i passeggeri non lo sanno, e neanche il pilota, che lascia la cabina di pilotaggio per alcuni minuti. Non sa che il suo collega si è chiuso al suo interno, bloccando ogni tipo di accesso.
Poco dopo inizia la discesa verso i monti, poi si trasforma in caduta libera.
Ci vogliono otto minuti prima che l’aereo finisca la sua folle corsa.
Minuti in cui il pilota ha inutilmente provato a riappropriarsi dei comandi. Colpi sulla porta, sempre più forti. Da dentro nessun rumore. Solo un respiro regolare di una persona tranquilla. Poi gli ultimi colpi, il suolo sempre più vicino, i passeggeri che si rendono conto dell’imminente schianto, una manciata di secondi, e tutto finisce.
Non sappiamo cosa sia passato per la mente del copilota, quando ha indirizzato il velivolo verso il basso.
Sappiamo che Andreas Lubitz era tedesco, aveva ventisette anni.
Alle spalle seicentotrenta ore di volo, e il certificato di Eccellenza della Federal Aviation Administration americana.
Sappiamo anche che aveva interrotto il suo addestramento a causa di un esaurimento nervoso, alcuni anni prima.
Ma la scatola nera, trovata tra i rottami, non può che conservare le vibrazioni presenti nell’aereo, tramutandole in suoni.
Non può dirci cosa sia passato per la mente di Lubitz, quando ha deciso il destino della sua vita e delle altre presenti a bordo.
Non può dirci niente dei pensieri del suo collega, che batteva disperato alla porta della cabina.
Non può parlarci del panico negli occhi dei ragazzi, nel momento in cui hanno capito che la gita sarebbe finita lì, che non sarebbero atterrati in Germania, che non avrebbero più rivisto le loro case.
Non può dirci se alcuni si sono arresi di fronte ai fatti, se nei pochi secondi prima dello schianto hanno sperato di farcela, se qualcuno sonnecchiava e non si è accorto di nulla.
Non può dirci dell’ultimo respiro della donna, quando ha capito che per lei e suo figlio non ci sarebbe stata più speranza. Quando ha capito che non avrebbe visto il suo bambino crescere, e che il suo bambino non sarebbe mai cresciuto.
Non può neppure parlarci della coppia di sposi. Non ci dirà mai se si sono guardati un’ultima volta, se si sono stretti la mano, o se non hanno avuto che il tempo di urlare.
Sono le dieci e quarantacinque del ventiquattro marzo, poi dell’aereo non si sa più nulla.
Il relitto giace sul massiccio dell’Estrop, nella regione di Digne, Francia. Ha volato fin dal 1990, prima di concludere il suo folle volo sulle montagne delle Alpi.
Sono le dieci e quarantacinque del ventiquattro marzo. I corpi giacciono scomposti sul suolo freddo, i rottami dell’aereo sparsi in mezzo a loro.
Non restano che pochi pezzi di metallo, dei corpi freddi, la minaccia della neve. Tanti interrogativi, tante risposte incerte, niente più memorie, solo ricordi sepolti che non usciranno più dalla propria tomba.
Non resta che qualche suono. Una porta che si chiude, dei forti colpi, respiri tranquilli. Un urlo collettivo, uno schianto micidiale.
Gli ultimi colpi, gli ultimi respiri, poi il silenzio. E poi l’interrogativo più grande di tutti, i pensieri che portano un uomo a compiere un gesto orribile, così assurdo: la reale debolezza della mente umana.
Emma Barraco (2B)