Rober Allen Zimmermann, ispirato dalla poetica gallese divenne Bob Dylan, Henry McCarty entrò nella leggenda come Billy the Kid, Maurizio Coruzzi ha assunto la sua veste drag queen diventando Platinette: quanti i nomi sulla bocca di tutti scelti per consacrare, nascondere o trasformare l’identità di scrittori, attori, criminali e volti della tv. Nomi che siamo talmente abituati a citare che sembra quasi incredibile possa esistere Anna Maria Mazzini senza Mina o Allen Stewart Königsberg senza Woody Allen. Spesso funzionano talmente bene che non abbiamo nemmeno idea si tratti di pseudonimi. Per non correre il rischio di darci una tale illusione il settimanale Il Mondo, accanto a una delle sue firme sul numero del 22 novembre, ha tenuto a precisare che “dietro lo pseudonimo di Fabrizio Salina si nasconde un importante uomo politico”. L’uso di uno pseudonimo velato di autocritica richiama alla mente l’intellettuale disilluso e scettico del Gattopardo, che rifiuta di assumersi la responsabilità politica del cambiamento in un mondo di cui non si sente partecipe. Viene da chiedersi perché mai Svevo, in calce alla prima edizione de La coscienza di Zeno, non abbia specificato che lo scrittore era “un importante imprenditore triestino”. Di certo sarebbe suonato più accattivante. Magari avrebbe venduto qualche copia in più in Italia, senza bisogno di troppe raccomandazioni. Ma se si supera l’asterisco per leggere il titolo dell’articolo non si può che restare ulteriormente perplessi: “L’Olimonarchia, un mostro politico”. Quindi l’articolo non riguarda l’ultima bravata di Justin Biber o l’insonnia di Victoria Beckham. No, parla proprio di politica: “Oligarchia, monarchia e anarchia: così i partiti fanno scricchiolare la democrazia”, prosegue l’occhiello. Quale lungimirante e anti-tradizionale nuova visione della così discussa situazione italiana si celerà dietro tanta precauzione nell’esporre una firma? Forse una cascata di insulti indecorosi (e quantomeno liberatori). Invece anche le aspettative meno diplomatiche vengono disattese: ad essere chiamato in causa in modo inaspettato è solo Cicerone, che riprendendo Polibio e Aristotele, aveva individuato le tre forme di governo possibili e le loro rispettive degenerazioni: monarchia, aristocrazia, democrazia precipitano in tirannide, oligarchia, anarchia. Un fine parallelo letterario e politico fra la repubblica romana, di lì a poco annegata nel sangue delle guerre civili, e la traballante repubblica italiana, ben più giovane e tuttavia ben più vicina alla decrepitezza, per dirla con un altro grande scrittore dei tempi del principato. Peccato che sul De Republica ci fosse scritto chiaramente il nome dell’autore. Perché celarlo sarebbe stato semplicemente assurdo. La res publica per Cicerone era res populi, l’uomo romano, prima ancora che padre, amico, amante, era cittadino. La vita a Roma non aveva senso che come vita pubblica e nella vita pubblica si riversava qualsiasi attività individuale. Parlare di repubblica per Cicerone non avrebbe avuto senso senza metterci la faccia. “È dovere di ogni cittadino l’impegno politico”, chi se ne sottrae perde la propria identità. Non sembra valga lo stesso per i politici italiani, colti da uno strano senso del pudore proprio quando si tratta di parlare di res publica (molto meno in certi casi, quando si tratta della vita privata), dimentichi di quella responsabilità che in democrazia dovrebbe andare di pari passo alla rappresentanza. La conclusione dell’articolo per altro è pienamente calzante: “è ovvio che al nostro campionario politico mancano esempi di democrazia ben funzionante”.
Federica Baradello