Viviamo in un mondo sempre più digitalizzato, e – che ci piaccia o meno – tutti ci imbattiamo quotidianamente nei grandi siti, che siano di e-commerce (come Amazon ed EBay), di streaming (per film, serie tv, musica e dibattiti), di informazione (come Google stesso o i quotidiani) e i social network. Questi ultimi non hanno certo bisogno di presentazione, ci sono da anni, ne parlano tutti, ci trovi di tutto su tutti. E non importa come li abbiamo scoperti, continuiamo a utilizzarli, a postare foto, a guardare video, a lasciare like, contenti di poter avere tutto il mondo a portata di click ovunque, a qualsiasi ora e soprattutto gratuitamente.
Ma se un prezzo da pagare ci fosse?
Be’, di certo non lo paghiamo direttamente noi utenti: sarebbe un suicidio economico da parte dei colossi della rete, tutti o quasi smetterebbero di usufruire dei loro servizi e le loro azioni in borsa calerebbero così tanto che sarebbe impossibile per i loro investitori avere fede che in futuro i loro investimenti possano fruttare.
Prima di continuare, serve però aprire una piccola parentesi: non più di quattro giorni fa, le piattaforme di Zuckerberg (Facebook, Instagram, Messenger e WhatsApp) sono state inaccessibili per 6 ore, e questa “breve” interruzione è costata a Facebook.inc ben 3 miliardi di dollari, una cifra esorbitante non dovuta solamente alle spese di manutenzione, ma soprattutto all’interruzione improvvisa del funzionamento di tracker e cookies che il colosso finanziario usa per fornire dati sui suoi utenti ad altri siti.
Se pensiamo alle informazioni, la gran parte delle maggiori aziende del mondo si occupa proprio di informazioni personali: infatti i dati vengono considerati una ricchezza quasi inestimabile e non a caso gli analisti li comparano al petrolio di 20 anni fa. Ma quali dati in particolare?
Si va da quelli più “innocenti” legati alle nostre ricerche online, ad algoritmi in grado di capire cosa ci piace fare, fino ai dati più sensibili: sesso, età, prodotti che utilizziamo, opinioni politiche, indirizzo di casa, metodi di pagamento, dati dei familiari, dove ci troviamo e persino dove passeremo le vacanze.
Quando, però, andiamo a curiosare sui grandi siti e a cercare le informazioni che questi prendono da noi, troviamo sempre espressioni che sottolineano il fatto che i dati che raccolgono sono essenziali per “rendere più adatti […] i loro servizi”. Nello specifico, su Google, il colosso dei motori di ricerca, leggiamo: “Raccogliamo dati per offrire servizi migliori a tutti i nostri utenti, ad esempio per capire elementi fondamentali come la lingua che parli oppure elementi più complessi come quali annunci potrebbero esserti utili, le persone che potrebbero interessarti di più online o quali video di YouTube potrebbero piacerti. Le informazioni raccolte da Google e il modo in cui esse vengono utilizzate dipendono da come utilizzi i nostri servizi e da come gestisci i controlli per la privacy. Quando non esegui l’accesso a un account Google, archiviamo le informazioni che raccogliamo tramite identificatori univoci legati al browser, all’applicazione o al dispositivo che stai utilizzando. Ciò ci aiuta, tra le altre cose, a mantenere le stesse preferenze di lingua tra una sessione di navigazione e l’altra.”
È inutile spiegare che le piattaforme firmate Mountain View sono una vera e propria miniera d’oro di informazioni, partendo da Chrome stesso, che è il browser più utilizzato al mondo e da Gmail, due piattaforme di straordinaria importanza. Google, infatti, utilizza nei suoi algoritmi la cronologia delle ricerche di Chrome e di YouTube e propone così ad aziende di pubblicità affiliate di fare pubblicità dei loro servizi con te.
E Amazon? Nonostante gli incassi siano in gran parte dovuti ai prodotti che vende e ai suoi servizi di streaming, l’azienda si ciba voracemente di dati di cronologia, reazione ad annunci e perfino delle ricerche e domande che vengono fatte ai prodotti per la casa quali Alexa.
E Facebook? In generale questo social network raccoglie solo i dati specificamente utilizzati per registrarsi, le conversazioni, cosa ti piace ma anche i dati ricevuti dalla telecamera, il tempo che spendiamo sui loro prodotti e le reazioni agli annunci che abbiamo e – come spiegato prima – i dati che vendono alle società che comprano i nostri dati per poi mostrarci annunci e provare a venderci i loro prodotti.
Ma quanti di noi leggono per intero e con attenzione le diverse policy aziendali relative al trattamento dei dati personali? Troppo lunghe e non sempre facili da capire, le viviamo più come un ostacolo – fra noi e una tranquilla navigazione online – che come una possibilità di tutelare la nostra privacy. Forse però dovremmo fare uno sforzo in più, pretendere maggiore chiarezza, disabilitare i cookies non necessari e, insomma, evitare di buttarci a occhi chiusi nel soffocante abbraccio dei giganti della Rete.
Edoardo Masera