“Era una grigia mattina metropolitana di aprile, in cui il freddo aveva perso la crudeltà invernale ma non si era rassegnato a consegnare il risveglio degli uomini al tepore primaverile. Un’assonnata domenica mattina, il suono della sveglia era stato zittito da un gesto di rabbia, affondando la faccia nel cuscino. Ad attraversare la città solo un intrepido ma sparuto gruppo di ragazzi, in partenza verso una meta lontana … ed io con loro. La compagine era salita sul pullman, aveva salutato i propri cari, ed era partita. Ed io con loro. Ho preso posto al fondo del piccolo veicolo a motore, e mi sono dedicato all’osservazione dei miei compagni di viaggio. Facce assonnate, facce serene, facce malinconiche. Chi si lamentava dell’ora del risveglio, chi raccontava al compagno la propria perplessità, chi taceva e meditava sulle proprie speranze legate al viaggio che stava intraprendendo. Certo, gli italiani sono cambiati dai tempi della mia prima visita nel Belpaese. Allora neppure si chiamavano italiani! E poi erano chiassosi, energici, chiacchieroni, scattanti, polemici, scaltri, battaglieri. Avevano l’aria furba di chi vive con la presunzione di aver molto da insegnare e pochissimo da apprendere, la fierezza di chi è ben consapevole di vivere nell’ombelico del mondo. E, per quanto la presunzione di questi furbi piccoletti potesse risultare irritante, devo ammettere che tale orgoglio non era del tutto privo di fondamento. A rilento, abbiamo percorso l’autostrada. Attraversando il confine siamo giunti in Svizzera, poi in Francia, di lì in Germania e, finalmente, in Olanda. Era notte fonda. Con curiosità sono sceso dal pullman per vedere i miei compatrioti. Erano, come i loro colleghi italiani, troppo affaticati dall’ora tarda per mostrare qualche segno della loro personalità. Ho rinviato all’indomani l’osservazione degli olandesi e del loro contatto con gli italiani. Il giorno seguente, a scuola, ho finalmente potuto essere testimone diretto dei rapporti instauratisi tra mandolini e tulipani. I due gruppi erano sorprendentemente “vicini”. Ai miei tempi, al di là della differenza linguistica che all’epoca risultava incolmabile, un gruppo di olandesi e uno di italiani, da qualunque ducato venissero, non avrebbero mai potuto instaurare un dialogo, perché non avrebbero avuto, semplicemente, di che discutere. Si è unita l’Europa, a quanto pare … si è rimpicciolito il mondo! Certo, nel parlare del Belpaese i giovani italiani erano privi della fierezza di cui si gonfiavano il petto i loro antenati e sul cui ricordo mi ero soffermato il giorno precedente. Inoltre, sembravano stupiti della rilassatezza, dell’assenza di pressioni di cui era ammantato l’ambiente circostante. Sembravano cercare nel volto degli indigeni tracce di quella frenesia rabbiosa e isterica che avevano lasciato in patria, ma riuscivano a scorgere solo un leggero e tranquillo sorriso. Ero un po’ stupito anch’io. Certo, ai miei tempi questa regione era considerata la più rozza d’Olanda, ma certo non potevo immaginare che i suoi abitanti fossero tanto diversi dai rigidi calvinisti che erano i miei concittadini, poche miglia più a Nord. Alcuni italiani avanzavano la curiosa ipotesi che si fosse l’effetto dell’ uso di droghe leggere. Sono rimasto allibito! Droghe? Nella mia amata Olanda? Tra i miei compatrioti protestanti? I tempi devono essere cambiati parecchio … E la Compagnia delle Indie Orientali deve aver allargato non poco i propri traffici negli ultimi quattro secoli! Rimuginando su queste e altre considerazioni, ho trascorso la settimana osservando non visto i comportamenti dei ragazzi. Ho visto un’Olanda che non mi ricordavo e con sorpresa ho preso nota della curiosità sincera dimostrata dagli italiani, che è stata il motore del loro soggiorno. Capitolo finale del viaggio è stata la gita ad Amsterdam. Oh, Amsterdam, la capitale del mio paese, il centro del mio cuore! L’ho trovata parecchio cambiata. I resti della “metropoli” del mio tempo sono ancora visibili, ma, come credo sia inevitabile, nel corpo della città è stato impiantato uno scheletro metallico industriale che le sporge sotto la pelle in corrispondenza delle giunture. Ci sono ancora alcuni edifici della mia epoca, ma certo faticano a nascondere le costruzioni del dopoguerra, che facendo capolino sulle nuove strade stonano con l’atmosfera dei canali. Il momento più atteso dell’escursione è stato la visita al Riijksmuseum. Tra le opere di alcuni miei illustri coevi c’erano anche le mie! Ebbene sì, e tutte esposte nella sala principale! Mi sono fermato (e mi sono guardato) di fronte alla “Ronda notturna”. Il mio dipinto forse migliore, ho pensato. Ho fissato la folla che premeva sulle transenne per ammirare la mia opera. Dai commenti interessanti che riuscivo a cogliere chiaramente, ho intuito che si trattava degli studenti italiani! Mi sono spostato e, ammassati uno sull’altro sulle scale che portano al piano superiore, ho scorto gli olandesi, impegnati in una gara per produrre l’espressione di noia più inequivocabile. Certo, l’Olanda e l’Italia sono cambiate. Oggi sono due stati, non c’è più la peste e non si viaggia più sulle carrozze. Una cosa, però, è rimasta immutata: i miei compatrioti, oggi come allora, non apprezzano le mie opere, le giudicano noiose e tetre. Resta la consolazione, seppur magra, delle facce entusiaste dei ragazzi italiani all’uscita dal museo.
Io sono Harmenszoon van Rijn Rembrandt, e questa è la storia del mio ritorno in patria, a 340 anni dalla mia morte … in compagnia della Terza B”.
Federico Fornari (3B)