I fattori che ci spingono a leggere o a guardare un film, in fondo, sono sempre i soliti: la curiosità, la passione, la famiglia, gli amici o la scuola. Oppure siamo alla ricerca di qualcosa: un’avventura, una storia d’amore o un brivido che ci scuota. Quello che si crea è un dialogo, tra lettori, spettatori e opera: si finisce inevitabilmente per entrare nella vicenda e identificarsi con i personaggi. A volte, ci s’immedesima a tal punto da fare proprio il comportamento del personaggio stesso.
In psicologia questo meccanismo prende il nome di transfert e consiste nello sviluppare sentimenti e pensieri per coloro con cui abbiamo a che fare.
Nel caso delle pellicole, l’uso di effetti speciali, la creazione d’immagini sempre più realistiche, o ancora il perfezionamento del sonoro, permettono a chi sta di fronte allo schermo di entrare all’interno della storia e di viverla come se ne facesse davvero parte. Ma quando possiamo dire davvero di conoscere l’identità di un personaggio con tutte le sue sfaccettature?
Se analizziamo il pensiero del sociologo Ervin Goffman, quando parliamo d’identità di un soggetto, prima ancora di capirla dobbiamo avere la consapevolezza della sua dinamicità. Si manifesta e riproduce nella vita quotidiana di ogni individuo ed è influenzata dalle mediazioni.
Qui una domanda sorge spontanea: le mediazioni passate cadono nel dimenticatoio? Se davvero la nostra identità è dinamica, non solo dovrebbe essere in grado di conservare quanto appreso in un dato momento, ma, quando la situazione lo richiede, saper assumere il giusto ruolo in base al contesto.
Nel corso della vita, sono una pluralità i ruoli che andiamo a ricoprire. Volendo, si possono anche fare esperienze in cui l’interpretazione di un ruolo diventa un vero e proprio gioco, o un lavoro, se si pensa a cosa fanno gli attori al teatro o al cinema. Ogni ruolo, poi, assicura una certa prevedibilità nel comportamento, l’attenersi o il modificarsi è correlato al manifestarsi degli altri.
Chi è particolarmente abile potrebbe anche creare un vero e proprio role play, dove i ruoli che può interpretare possono essere conosciuti come frutto della propria immaginazione. Un role play implica l’entrare in relazione con altri; oltre a questo, l’unico prerequisito per giocare è quello di possedere una buona capacità d’improvvisazione: le scelte degli altri giocatori sono potenzialmente infinite, così come il numero di personaggi che possono prendere parte al “gioco”.
I partecipanti al role playing, immedesimandosi in questi personaggi, entrano all’interno di una storia, la quale viene raccontata loro da un narratore, che ne gestisce il canovaccio e a sua volta interpreta altri personaggi. Un gioco di ruolo è, così, potenzialmente un gioco infinito. Si può sviluppare senza fine, continuando fino a che i giocatori hanno voglia di interpretare il loro personaggio o finché non decidono di assumerne i panni di un altro.
Ma quanto questi ruoli ci condizionano nella vita reale? Una volta messo da parte un libro o finito di vedere un film, siamo in grado di allontanare questi personaggi, o invece tendiamo a portarli con noi?
Spesso, colpiti in modo positivo da qualcosa, delle persone tendono a trasportare alcune sfaccettature di diversi personaggi anche nella vita reale. Questo è il caso degli adolescenti che spesso, non sapendo ancora chi sono, spinti dall’ammirazione cercano di imitare e somigliare il più possibile a una figura per loro di riferimento.
Che questo processo serva a superare le proprie insicurezze? Può essere, ma alle volte può degenerare portando chi lo affronta a isolarsi, oppure produrre effetti negativi sul piano della psiche e dell’emotività. L’unica certezza che abbiamo è che le narrazioni, libri o cortometraggi che siano, ci permettono di creare delle realtà parallele alla nostra dove noi e i nostri personaggi viviamo avventure uniche ed è proprio all’interno di questi mondi che impariamo a conoscerci davvero.
Forse, non c’è intimità migliore di questa per conoscersi davvero.
Elena Vaudetti