In tempi di Covid, un inglese che dice “Put the cat on top of the table” è potenzialmente più pericoloso di un italiano che asserisce “Metti il gatto in cima al tavolo” o, ancora, di un giapponese che ripete la stessa frase nella sua lingua. A poco meno di un anno di pandemia, dovremmo ormai aver imparato quali sono i metodi di diffusione del Coronavirus. Le droplets, cioè le goccioline di saliva disperse nell’aria e portatrici del virus, sono il vero problema. Tosse, starnuti, contatto con superfici infette, il solo parlare sono tutti fattori influenti. Eppure, manca ancora qualcosa nell’elenco: le lingue. Non tutti i parlanti, infatti, emettono la stessa quantità di goccioline. Causa maggiore di questa differenza sono i tipi di suoni, o a voler essere più specifici, di fonemi che ogni lingua ha nel proprio repertorio. Le varie lingue, tanto quelle storico-naturali (cioè quelle che nascono e si sviluppano spontaneamente) quanto quelle create a tavolino, come ad esempio l’esperanto, sono costituite da un determinato numero di fonemi che, combinandosi l’uno con l’altro, formano le singole parole. Ogni fonema viene realizzato dal nostro apparato fonatorio – cavità orale, nasale, laringe e faringe – in modo diverso. Questo significa, semplicemente, che ogni volta che un parlante pronuncia una parola, gli organi responsabili della fonazione assumono una conformazione diversa. In base a tale conformazione, i fonemi prendono il nome rispettivamente di consonanti e vocali.
Ciò che, di fatto, rende l’inglese più “pericoloso” di molte altre lingue, tra cui l’italiano, è un tipo particolare di consonanti, esistenti solo in tale lingua e in poche altre: le aspirate. [p] [t] e [k] (cioè, per intendersi, la “c” di casa), che noi siamo abituati a pronunciare in maniera leggermente diversa rispetto a come le potrebbe pronunciare un parlante inglese, vengono in linguistica definite occlusive, perché, nel pronunciarle, la nostra lingua è schiacciata contro la parte superiore della nostra cavità orale, bloccando quindi completamente il passaggio dell’aria. In inglese, queste tre consonanti, quando si trovano all’inizio di una sillaba, vengono pronunciate aggiungendo un suono simile a [h]. Tale suono è chiamato aspirazione e provoca una maggiore emissione di goccioline di saliva nell’aria. Se il parlante, quindi, è malato, il virus viene sparso ovunque. Secondo un articolo della rivista scientifica Medical Hypotheses, pubblicato dall’Università RUDN di Mosca, il numero di individui malati di COVID è stato maggiore nei paesi con lingue contenenti consonanti aspirate. Lo studio fa riferimento ai 26 paesi del mondo più colpiti dalla malattia (esclusi alcuni outlier, come ad esempio l’Italia e il Giappone) e alla frequenza di suoni aspirati nelle lingue di ognuno. II dati sono chiari: i casi di Covid-19 risultano più frequenti del circa 20% nei paesi con consonanti di questo tipo (255 malati per milione di abitanti nei paesi con “aspirazione” contro i 206 per milione dei paesi senza).
L’ipotesi che le lingue influenzino la diffusione di alcune malattie in realtà non è nuova. Uno studio simile a quello dell’Università RUDN, pubblicato sulla rivista scientifica Lancet e risalente al 2003, fu condotto durante la prima epidemia di SARS in Cina. Lo studio prendeva in analisi i dati relativi a due paesi in particolare, il Giappone e gli Stati Uniti. Una scelta non casuale, legata principalmente a questioni di turismo nel sud della Cina, focolaio di infezione, oltre che alle caratteristiche linguistiche dei due idiomi in questione. All’epoca dell’epidemia di SARS, infatti, il numero di turisti statunitensi era molto minore rispetto al numero di giapponesi, eppure gli Stati Uniti registrarono ben 70 casi di SARS, mentre il Giappone nessuno. Perché? La risposta starebbe, ancora una volta, nelle consonanti aspirate: il giapponese ne ha pochissime, a differenza dell’inglese.
Gli studi fatti fino ad ora presentano tuttavia anche qualche limite. Innanzi tutto, nelle varie analisi non viene preso in considerazione lo sfondo culturale e linguistico dei parlanti, che però è di fondamentale importanza. Dopotutto, il contesto in cui un individuo impara a parlare e il suo grado di istruzione influiscono in maniera rilevante sulla pronuncia: basti pensare, ad esempio, alle notevoli differenze sonore tra l’italiano settentrionale e quello meridionale, o ancora alla presenza di aspirazione in toscano, unica variante della nostra lingua ad avere questa caratteristica. Inoltre anche la distanza tra le persone mantenuta durante una conversazione influisce sul tasso di diffusione dei virus. Si tratta insomma di un’ipotesi, più che di una vera e propria teoria, degna però sicuramente di essere approfondita, perché potrebbe portare a nuovi ed interessanti sviluppi.
Se dovete mettere il gatto sul tavolo, quindi, per il bene di tutti, non ditelo in inglese!
Isabella Scotti