Un paio di scarpe rosse. Un nastro bianco. Gli striscioni. Le voci che in coro intonano un grido di protesta. Il desiderio di giustizia. Sono pochi elementi che, però, accomunano tanti paesi. Pochi elementi che ogni anno sono protagonisti in un giorno speciale: il 25 novembre. Anche noto come la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro donne.
Il 35% delle donne nel mondo ha subito una violenza fisica o sessuale dal proprio partner o da un’altra persona. Solo in Italia – secondo dati Istat riportati nel giugno 2015 – le vittime sono 6 milioni e 788 mila. Stiamo parlando del circa dieci per cento della popolazione. Di più di sette volte la popolazione di Torino, di cui 652 mila sono donne che hanno subito stupri. Inoltre l’Istat stima che il 21,5% delle donne fra i 16 e i 70 anni, pari a 2 milioni 151 mila, abbia subito comportamenti persecutori da parte di un ex partner nell’arco della propria vita. 161 sono, invece, le donne uccise nei primi dieci mesi del 2016 in quello che dovrebbe essere il Bel Paese. Più di una ogni tre giorni.
Sarebbe bello poter ignorare questa snocciolata di dati. Sarebbe più facile. Sarebbe bello poter vivere nell’ingenuità. Ma sarebbe del tutto inefficace. Bisogna dar voce al nodo alla gola che percepiamo. Alle lacrime che ci rigano il viso. Alle rughe di preoccupazione che ci si formano in fronte. Bisogna alzarsi in piedi e gridare per il mondo in cui vogliamo che nascano i nostri figli. Un mondo in cui ci si possa fidare del genere umano. In un contesto del genere, dobbiamo rendere il privato oggetto di materia pubblica. Solo sensibilizzando i bambini – maschi e femmine – a parlare, ad esporsi, potremmo ottenere dei risultati. Coloro che siedono fra i banchi di scuola sono il nostro futuro. E parte della formazione, scolastica e non, deve essere il rispetto per la vita altrui. Il rispetto per le persone. Come spiega il primo ministro australiano Malcom Turbull “In quanto genitori, una delle cose più importanti che dobbiamo fare è accertarci che i nostri figli rispettino le loro madri e le loro sorelle”. Viviamo in una società incentrata sull’oggettivazione del corpo e della figura femminile. In quanti si ricordano della volgare battuta dell’allora presidente de consiglio Berlusconi quando chiamò la cancelliera tedesca “una culona inchiavabile”? Come se tutto ciò che importasse fosse il suo aspetto fisico e non il suo essere una delle donne più potenti del globo. “Serve un cambiamento culturale” afferma Antonietta Confalonieri, avvocato che da oltre dieci anni si occupa di casi di violenza contro le donne. Ed è esattamente di questo che si tratta: bisogna cambiare la concezione che la società contemporanea ci impone sulle figure maschili e femminili. E ancora, “L’uomo deve imparare a comprendere il mondo della donna, conoscerlo (dentro di sé e fuori di sé), così da non averne più paura. Perché è quando non si conosce che si ha paura, ed è quando si ha paura che si diventa violenti”. E questo la storia ce l’ha insegnato a sufficienza. Della stessa opinione è Turnbull che a proposito del tema afferma ancora: “La violenza contro le donne è una delle grandi vergogne del nostro paese. È una disgrazia nazionale. […] Lasciatemi dire: non rispettare le donne forse non porta sempre alla violenza, ma è certo che tutta la violenza contro le donne inizia non rispettandole”.
Bisogna parlarne di più, discuterne di più, scriverne di più. Bisogna denunciare di più. Per far capire che non è un fenomeno lontano dalla quotidianità. Che è tutt’altro che raro. Troppe volte abbiamo assistito ad episodi di giustizia mancata, soprattutto con l’incontro con i media. Chiariamolo una volta per tutte. I social network non sono una piattaforma da usare per violentare verbalmente con una quasi totalità di riferimenti a sfondo sessuale, e i colpevoli devono assumersi le responsabilità delle loro azioni. Non possiamo rimanere nel silenzio. Lo dobbiamo alle famiglie delle vittime. Lo dobbiamo alle vittime stesse. Lo dobbiamo a Marinella, uccisa a coltellate dal marito. E lo dobbiamo a Luana, strangolata a morte per gelosia dall’ex-compagno. Lo dobbiamo a Carla, bruciata viva quando incinta. Lo dobbiamo a tutte quelle donne che avrebbero potuto essere le nostre madri o le nostre sorelle. A tutte quelle donne che avremmo potuto essere noi.
Ginevra Galliano, corrispondente dall’Australia