Scontro ideologico sulla morte: Chiesa ed etica laica

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Un tema importante in ogni tempo. Oggi più che mai

 

Cos’è la morte? La morte cerebrale equivale alla morte del corpo? Una persona in stato vegetativo si deve continuare a nutrire? Un suicida si deve soccorrere e curare?

Queste sono solo alcune delle domande che ci poniamo durante la nostra vita e sottolineano quanto il pensiero della morte sia, oltre che il più centrale, il più vitale dei pensieri. Perché la morte non è soltanto il termine della nostra vita terrena, è anche quello che le dà sapore, proprio quello che ci fa vivere, secondo le nostre convinzioni, la vita stessa e che ogni giorno ci induce a compiere azioni importanti perché (sapendo che esiste una fine) siamo indotti a pensare bene ad ogni nostro gesto.

Già nell’antica Grecia molti filosofi s’interrogavano su cosa fosse la morte e su quanto incidesse sulla condotta della nostra vita. Infatti Socrate fu il primo che affermò di non avere paura della morte dicendo: “Temere la morte, infatti, non è altro, cittadini, che credere di essere sapiente senza esserlo”. E, nel “Fedone”, Platone ci racconta come Socrate, discutendo in carcere con i suoi allievi, pensasse che solo la morte potesse permettere all’anima di raggiungere la verità, dopo essersi liberata del corpo, giacché essa è immortale.

In seguito, nel Medioevo, la mentalità comune conosceva e accettava la morte in quanto tale, grazie anche alla Chiesa Cattolica che infondeva con successo l’idea della risurrezione dopo la morte.

Nell’Illuminismo avviene un cambiamento fondamentale, perché la morte si trasformò progressivamente da momento essenzialmente pubblico, definito da un codice preciso, ad una un’esperienza chiusa nell’ambito privato della famiglia e si coronò di tonalità affettive via via più intime e intense.

La morte diviene infine ai giorni nostri “proibita”, sentita come un tabù che infrange il nostro benessere e la felicità della “massa”, parola d’ordine dell’età contemporanea.

Proprio per questo le notizie di questi ultimi tempi, come la morte di Eluana Englaro, che analizzano la morte, non come un evento, perché in ogni telegiornale abbiamo racconti di morti che ci provengono da tutto il mondo, ma in quanto ideale, destano molto scalpore e interesse nell’opinione pubblica.

E si sono accesi numerosi dibattiti nei quali si scontrano ideologie diverse che sono basate sulle differenti religioni, sulla considerazione della scienza e sull’etica morale propria di ognuno.

In particolare si discute se la morte cerebrale di una persona equivalga alla morte totale del corpo.

Ovvero se una persona in coma vegetativo, che non può svolgere nessuna funzione e si deve nutrire attraverso macchinari, valga la pena che continui a vivere. Che alla fine si può tradurre tutto in una sola questione: è più importante la vita o il vivere?

Una delle domande più difficili a cui si possa rispondere, ma se ci si riuscisse, si potrebbero risolvere un’infinità di quesiti, come se è giusto cercare di salvare e di curare un’suicida, o se è corretto far continuare a vivere chi chiede l’eutanasia. E’ molto difficile rispondere a una di queste domande perché le nostre risposte sono condizionate dalla nostra paura della morte, poiché non conosciamo ciò che potrà avvenire dopo e non riusciamo ad accettare che essa stabilisca una fine totale di noi stessi e che dopo di non ci sia più niente.

Ed è evidente come, anche per dare una speranza a questo, tutte le più importanti religioni del mondo vedano dopo la morte un seguito, nell’aldilà o reincarnati sotto un’altra forma.

 

Gabriele Ciravegna (1C)

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