She’s leaving home

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Sono le 7:30 di mattina quando lo shuttle arriva sotto casa. Uno sguardo alle espressioni dei ragazzi seduti dentro ad aspettare che tu scenda, è sufficiente a farti capire che non è uno scherzo, non è una finta, stiamo davvero lasciando la Nuova Zelanda, stiamo tornando in Italia. Sì, in Italia, è meglio evitare di usare il termine casa, può creare confusione, perché la sensazione più forte del momento è quella di star lasciando casa. Le successive trentadue ore si perdono nella confusione tra aeroporti, gates, voli, giornate di sole troppo lunghe, pasti a ore improbabili e una continua indecisione sulla lingua da usare per rivolgersi alle persone. Ma anche queste passano troppo in fretta, ed è un attimo trovarsi a Milano. Presi i bagagli, non è immediato varcare la soglia delle porte che ci separano da chi ci aspetta ormai da mesi e dall’inverno italiano, gelido come non mai dopo l’estate appena lasciata nell’emisfero australe. Sono questi i pochi passi che concluderanno definitivamente la nostra esperienza, e tutti noi lo avvertiamo, leggiamo la riluttanza negli occhi altrui e ci lasciamo questi mesi alle spalle per tornare alla vecchia vita, quella reale, che ci sta aspettando qualche metro più in là, pronta a trascinarci nuovamente con lei, con i suoi ritmi veloci, e che non ha tempo da perdere. Ancora uno sguardo ai ragazzi intorno a te, con i quali non hai condiviso più di qualche ora su un aereo sorvolando vari continenti, ma che sai aver vissuto, sparsi per la Nuova Zelanda e ognuno a modo proprio, la tua stessa esperienza.  Indugi nel chiederti quali sono le loro storie, cosa ricorderanno di questo viaggio, vorresti confrontare con ciascuno di loro le tue impressioni e le tue avventure. Sembra di dare l’addio a cari amici dal momento in cui sei consapevole del fatto che ognuno di loro può comprendere, molto meglio di qualsiasi altra persona al di là di quella porta, quello che hai vissuto e che stai vivendo. Ma non c’è più tempo, avverti l’attesa oltre i battenti, la quotidianità che preme. È ora di andare. Non ci mette molto l’odore dell’inverno a penetrare nelle narici e sostituire quello dell’oceano. L’abbronzatura sbiadisce velocemente, nascosta sotto maniche lunghe e pantaloni. Parlare italiano con le persone di fianco a te non è poi così impensabile e tutte le parole che non hai usato né pensato per mesi riaffiorano facilmente alla mente. Tutto ricomincia a scorrere normalmente, e tra amici e scuola  ti sforzi di non pensare a quello che hai lasciato indietro, ai tuoi amici che tra spiaggia e surf continuano la loro vita, senza di te. I tuoi momenti là sembrano distanti, come un sogno, una realtà lontana nello spazio e nel tempo. Portare un po’ dell’emisfero australe a  casa non è facile come sembra. Neanche raccontare quello che è stato è poi così soddisfacente. Ti rendi presto conto fino a che punto sia difficile trasmettere a chi non l’ha vissuta quest’altra mentalità, questo diverso stile di vita, tramite il solo uso delle parole. Ti accorgi di quanto tutto ciò per loro non sia che una bella storiella. Ma in effetti, a noi sono serviti cinque mesi di viaggio, lontani quasi 20.000 km da casa, soli, per iniziare a concepire questo altro modo di vivere la vita.  

Michela Borgogno (4C)

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