“Chi fa la spia non è figlio di Maria”. Con queste parole, sempre sentite fin da piccoli, si è aperta una riflessione che ci ha proposto il nostro professore d’italiano.
“Perché sovente stiamo zitti davanti alle ingiustizie, comprese quelle più innocue? Forse è la nostra tradizione che ci ha insegnato a non fare la spia fin dalla più tenera età, ad imparare a farci gli affari nostri fin dai primi giorni di scuola? Ci chiediamo davvero il significato della parola denuncia?”.
Così è cominciata la lezione. Pronti a condannare mali sociali come la mafia, che affliggono l’Italia, ma senza renderci conto che la legge del silenzio, quella dell’omertà, fa parte in fondo di un DNA tutto italiano trasmesso ai figli di intere generazioni. Manca cioè una vera e propria cultura della denuncia, una cultura che sia in grado di non farci sentire fuori posto nel far vincere il senso di giustizia.
Quante volte stiamo zitti davanti a tutte le forme di violenza subite da chi ci circonda, in particolar modo anche dai nostri amici? Ecco, in tali situazioni non andiamo mai in cerca di aiuto, preferiamo far finta di niente. Abbiamo in fondo paura di far del male a noi stessi, di passare noi dei guai, ma in questo modo alimentiamo solo un sistema basato sull’indifferenza e sull’individualismo, in cui le vittime si sentono sempre più sole.
E quante volte non abbiamo espresso le nostre idee su argomenti per noi sbagliati o ingiusti? Quasi sempre.
Dobbiamo sempre esprimere le nostre opinioni, commentare quelle degli altri, non avere paura di passare per “traditori” limitandoci al silenzio. Ognuno di noi deve avere il diritto di parlare senza nascondersi, senza temere per sé stesso. Denunciare un’ingiustizia, per quanto piccola sia, è sempre un atto di civiltà che, imparato fin da bambini, potrebbe anche aiutare a cambiare le cose.
Arianna Ceschina (1B)