Son morto come altri cento

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“Ad Auschwitz c’era la neve”. Ad Auschwitz, forse, c’è sempre la neve. Probabilmente tanti pensano che dopo aver superato il cancello si inizino a sentire le urla dei vecchi detenuti, o gli sprezzanti ordini in tedesco che ancora riecheggiano nell’aria. Non è così. Ciò che colpisce è proprio l’immobilità eterna di quel luogo, di quelle caserme rosse e di quello spaventoso cancello nero. Quando si è a casa si ripensa a quel periodo con orrore e sdegno, ma quando si cammina tra un edificio e l’altro che più di ogni cosa al mondo hanno conosciuto la morte e la sofferenza, non si riesce ad immaginare ciò che è realmente successo.

Se una persona non lo ha vissuto sulla propria pelle, diventa impossibile concepire le atrocità commesse in quel luogo nei pochi anni di attività. L’idea della soluzione finale rivela essere simile al concetto di Dio, chiaramente inverso, ma analogamente troppo grande per essere compreso appieno.

L’unico momento in cui si risveglia quel profondo senso di odio e rabbia è quando si vedono le enormi quantità di capelli e di scarpe e di foto contenute nel museo. Solo quando carpisci la tristezza negli occhi dei bambini quella diventa anche parte di te. Solo quando guardi la villa del comandante del campo, e pensi alla vita agiata che ha sempre condotto a pochi metri da persone costrette a lavorare per dodici ore al giorno, in quel momento senti la rabbia crescere dentro di te. Questo è il vero valore delle testimonianze, e della memoria. Il ricordo è ormai tutto ciò che ci resta di un’epoca peggiore, passata. Solo attraverso questi si riesce a riflettere sulla realtà dei fatti, su ciò che è stato.

L’uomo ha un’ enorme potenzialità: è in grado di far tesoro dei propri errori, per quanto grandi essi siano.

Quando vedi gli occhi dei bambini internati, speri che questa affermazione sia vera.

 

Riccardo Tione (4B)

 

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