Napoli è una ragnatela di vicoli incorniciati di case grige dalle facciate scrostate, colorati dai banchi sparsi di frutta e verdura. A fare da ingresso le insegne di Adidas e Max Mara incastonate nella sfilata di negozi in pieno centro. Oltrepasso la soglia e il rumore della vita che corre mi investe, pulsando come il sangue dentro le arterie, sgomitando per farsi spazio dove ce n’è troppo poco. Lo sguardo si affolla di portoni, antenne, finestre, persone, edicole in plexiglas per Madonne di plastica, motorini sovraffollati, bambini che si disegnano tatuaggi a vicenda, peperoni, bucato steso … È una parte d’Italia che spesso gli italiani sono i primi ad ignorare, turisti stranieri che si muovono in casa propria. Una parte di Italia dove la strada non si limita ad essere luogo di passaggio: per strada si sta, in strada si vive. Napoli abita nei bassi, che si aprono, si estendono su quei vicoli, negli appartamenti di due stanze che affollano il dedalo di corridoi all’interno dei palazzi, in ogni cortile su cui si affaccia la vita di almeno settanta famiglie.
Ascoltando il ritmo incalzante della vita che scorre, scopro che è dietro il paravento, su quelle strade, in quei cortili, si sente battere il ventre di Napoli. È qui che si impara a conoscerla dove vive davvero. Questa è la città che ha imparato l’accoglienza in cucina e che dopo aver strizzato il naso davanti agli ingredienti, non potrà credere che la bagna càuda venga portata in tavola davvero; è la città delle notti trascorse in terrazzo, ascoltando il sacrestano recitare Totò e provando a cantare in dialetto le canzoni napoletane, mentre si appiccica addosso quell’accento invadente, ma sempre più familiare; è la città che odora di petardi e di fuochi d’artificio, sparati la sera per festeggiare scarcerazioni, partite di droga e compleanni; è la città dove Sant’Anna attraversa ogni vicolo e si inchina davanti alla casa di ogni malato, sorretta da spalle robuste, percorrendo in processione tutto il quartiere; è la città che riserva occhiate pungenti a noi turisti stranieri. È lo sguardo diffidente che vuole difendere la sua identità, lo sguardo che teme di scoprire il pregiudizio nei nostri occhi stranieri. I turisti si nascondono dietro la vetrina del centro fatto di chiese, caffè, presepi ed opere d’arte. Le vetrine del centro nascondono Napoli dietro il paravento commerciale per chi turista è e vuole restare. Il velo sottile dei luoghi comuni annebbia lo sguardo e noi lasciamo che confonda i contorni come si confondono nel marmo i lineamenti del Cristo Velato; è più comodo continuare a ignorare.
Ritrovandomi all’aperto, nell’ordine caotico del centro disegnato sulle cartine, mi accorgo che le cartoline nei negozi hanno assunto un’aria paradossale. Affacciandomi dal belvedere di Posillipo non potrò più lasciarmi rapire dal formidabil monte senza che lo sguardo cada inevitabilmente sulla ragnatela di vicoli che ne disegnano i piedi. È lì che Napoli vive guardando, osservando, più spesso scrutando. Non le basta “vedere”. È un’attenzione sottile, continua persino insistente. Napoli vive di sguardi pronti ad accendersi quando li incontri, oltre quel velo, oltre quel paravento.
“Statt’ accuort!” un tizio dal motorino sparato agli ottanta, mi riporta alla realtà, quasi m’investe in quel momento sorpreso, sospeso: Napoli insegna a guardare.
Federica Baradello