Ci sono uomini le cui vite furono (e sono tuttora) oggetto di ammirazione e la cui conoscenza permette una migliore comprensione del periodo storico in cui vissero. È questo il caso di Guglielmo il Maresciallo, chiamato dai suoi contemporanei il miglior cavaliere del mondo, la cui storia permette di entrare appieno nell’Inghilterra del XII secolo e di apprendere fino in fondo gli ideali della cavalleria medievale. La sua incredibile vita è raccontata in una chanson che, come scrive Georges Duby, “ci consegna qualcosa di infinitamente prezioso: la memoria cavalleresca quasi allo stato puro; senza questa testimonianza non ne sapremmo quasi nulla.”
Guglielmo il Maresciallo nacque in una famiglia della piccola nobiltà inglese intorno al 1145 e, in quanto figlio cadetto, non aveva diritto ad alcuna eredità ma, anzi, era visto come un pericolo dai genitori in quanto avrebbe potuto ostacolare il primogenito. Quando Guglielmo era ancora un bambino l’Inghilterra piombò nell’Anarchia, la guerra civile tra re Stefano e Matilda, figlia di re Enrico I e imperatrice del Sacro Romano Impero. La famiglia del Maresciallo prese attivamente parte alla guerra e il castello di Giovanni, padre di Guglielmo e favorito di Matilda, venne assediato dalle truppe di Stefano. Giovanni decise quindi di scendere a patti e si arrese, con il re che chiese un ostaggio a garanzia della parola data. La scelta ricadde sul membro considerato più sacrificabile della famiglia, Guglielmo, che a circa sei anni si ritrovò prigioniero al campo di Stefano e con la vita vincolata alla parola del padre. Questo si dimostrò ancora una volta incurante della sorte del figlio e, ignorando i dettami della resa, iniziò a radunare un nuovo esercito e a raccogliere approvvigionamenti. Stefano, accortosi delle azioni del rivale, mandò un messaggero ad annunciare che se i difensori non si fossero arresi immediatamente Guglielmo sarebbe stato impiccato. La risposta di Giovanni fu emblematica: “Ho ancora il martello e l’incudine con cui forgiare figli più numerosi e migliori!” Il destino del Maresciallo sembrava ormai segnato: abbandonato dalla propria famiglia, venne condotto verso l’albero al quale sarebbe stato impiccato. Re Stefano però, impietosito dalla sua tenera età, non riuscì a dargli la morte e anzi, dopo qualche mese di prigionia, lo restituì ai genitori.
L’Anarchia terminò poco tempo dopo e Guglielmo venne inviato dal padre in Normandia alla corte del signore di Tancarville, un importante vassallo del re d’Inghilterra. Il compito del feudatario era quello di svezzare il giovane e introdurlo al mondo della cavalleria, educandolo e addestrandolo. Il signore, che peraltro era un parente, prese molto seriamente il compito affidatogli e sostituì la figura di Giovanni nella vita del ragazzo. All’età di 13 anni Guglielmo diventò un valet, uno scudiero, pronto a diventare un perfetto guerriero. L’addestramento abituale degli aspiranti cavalieri era caratterizzato da un ripetersi di esercizi di abilità e destrezza, volti al perfezionamento delle tecniche di combattimento. Solo dopo aver dimostrato di saper padroneggiare al meglio armi, armature e cavalli, il cadetto poteva diventare cavaliere, nel corso di una cerimonia carica di simboli e vissuta intensamente sia dal mentore che dal pupillo. Nell’ambito della cavalleria medievale era questo il momento più alto nella vita di un guerriero, quello che lo proiettava in un mondo fatto di tornei e di virtù da coltivare. Il giovane eccelse anche in questo, divenendo un esempio di coraggio, lealtà, cortesia e prodigalità. Gli anni seguenti videro Guglielmo impegnato a partecipare a scaramucce e in svariati tornei tramite i quali non solo si mise in mostra, ma guadagnò anche ingenti ricchezze. Però, evidentemente, la Normandia non era abbastanza per lui.
Decise di rientrare in Inghilterra da Patrizio di Salisbury, zio materno e amico intimo di Enrico II. Patrizio gli permise di accedere alla corte reale, dove per un giovane e ambizioso cavaliere le opportunità non sarebbero mancate. L’occasione non tardò a presentarsi: nel 1168 infatti Guglielmo venne inserito tra i cavalieri della scorta della regina Eleonora d’Aquitania diretta nel Poitou per sedare una ribellione. Durante uno scontro con i ribelli Patrizio fu ucciso e il nipote venne fatto prigioniero. Nel combattimento Guglielmo aveva dimostrato coraggio, spirito di sacrificio, amore e fedeltà verso lo zio e la regina, tanto da indurre quest’ultima a pagare il suo riscatto e a inserirlo nel proprio seguito.
Ormai uno dei favoriti del re e della regina, nel 1170 per il cavaliere arrivò la svolta. In quell’anno Enrico II decise di incoronare il figlio Enrico il Giovane, allora quindicenne, pur senza cedergli alcun potere effettivo. Per far fronte alle grandi insicurezze e ansie del ragazzo il re nominò Guglielmo suo mentore, dando al cavaliere un enorme peso in termini di importanza e responsabilità. Enrico II cominciò fin da subito a finanziare le costose imprese cavalleresche del figlio, che si traducevano in un continuo girovagare per tornei. In quest’ambito Guglielmo il Maresciallo dimostrò tutta la sua bravura riconfermandosi come eccellente torneatore proteggendo e facendo ben figurare il suo pupillo, fatto essenziale in una società nella quale i tornei avevano un ruolo fondamentale. Enrico il Giovane mostrò fin da subito amore e stima per Guglielmo e questi sentimenti li confermò quando chiese al mentore di armarlo cavaliere. Fu, questo, un evento straordinario poiché, essendo Enrico figlio del re d’Inghilterra, tale onore sarebbe dovuto spettare a Enrico II stesso o a un altro potente signore. Fu invece Guglielmo, semplice e umile cavaliere, ad avere tale privilegio. Come spesso accade in questi casi però il Maresciallo venne accusato di tradimento da parte di nobili vicini al sovrano, invidiosi della sua ascesa e dell’affetto che il Giovane provava per lui. Sdegnato per queste accuse, Guglielmo abbandonò la corte.
Passò del tempo durante il quale il cavaliere, ormai affermato guerriero, partecipò a diversi tornei che acquisivano importanza grazie alla sua semplice presenza. Fu lo stesso Enrico il Giovane, in guerra contro il padre, a cercarlo: aveva bisogno dell’esperienza bellica del suo vecchio mentore e Guglielmo venne così reintegrato nel suo seguito. Il pupillo verso cui il cavaliere aveva provato così tanto affetto morì non molto dopo, l’11 giugno 1183, per dissenteria, infliggendo un duro colpo al Maresciallo.
Inaspettatamente Guglielmo non fu punito da Enrico II per l’aver levato le armi contro di lui: il cavaliere seguendo il Giovane aveva infatti dato un brillante esempio di fidelitas, la prima e più importante virtù, e agli occhi del re questo era un qualcosa da premiare. Nei mesi successivi andò in pellegrinaggio in Terra Santa e ricevette dal re il feudo di Cartmel. Ma i problemi non erano finiti: nel 1188 Riccardo Cuor di Leone, altro figlio di Enrico II, mosse guerra al padre. Durante questo nuovo conflitto avvenne un fatto che avrebbe potuto compromettere gravemente la posizione di Guglielmo: nel corso della battaglia di Le Mans (1189) le truppe del re furono messe in rotta da quelle del figlio e il Maresciallo, per coprirne la ritirata, affrontò e disarcionò Riccardo. La situazione del cavaliere si fece quindi estremamente precaria, trovandosi egli in mezzo a un conflitto familiare tra Enrico II, il re, e suo figlio, l’erede designato. Fedele al primo e avendo umiliato il secondo Guglielmo si sarebbe trovato in una posizione delicata una volta divenuto sovrano il Cuor di Leone. Ciononostante continuò a dimostrare a Enrico, morto quell’anno, quell’amore, affetto e fedeltà che gli aveva sempre portato, curandone personalmente il funerale.
Riccardo Cuor di Leone, divenuto re Riccardo I, accusò il Maresciallo di aver tentato di ucciderlo, accuse che Guglielmo respinse fieramente facendogli notare come, dopo averlo disarcionato, avrebbe potuto finirlo facilmente. Il nuovo re mostrò generosità e lungimiranza, perdonando il cavaliere e concedendogli in sposa una ricca ereditiera e inserendolo nel proprio seguito. Grazie al matrimonio il Maresciallo era diventato un signore potentissimo, capo di una propria casata e con un ricco seguito di aspiranti cavalieri. Nonostante il prestigio e l’autorità raggiunti, Guglielmo continuò a dimostrare la sua oramai proverbiale fedeltà alla famiglia reale, continuando a combattere, ormai cinquantenne, al fianco di Riccardo e, dopo la sua morte, di re Giovanni. Questi, prima di morire, nel 1216, affidò al Maresciallo la tutela del piccolo Enrico III e la riemissione della Magna Carta, da lui firmata nel 1215 e considerata una delle basi delle moderne costituzioni parlamentari. L’ultimo atto del cavaliere fu la vittoria nella battaglia di Lincoln del 1217 contro le truppe francesi, con la quale salvò il regno del suo pupillo, pose fine alla guerra contro la Francia e decretò la propria apoteosi. Guglielmo il Maresciallo morì poco tempo, sepolto come un cavaliere templare, pianto da tutti gli inglesi.
Nacque così la leggenda del miglior cavaliere del mondo anche se con la sua morte si chiudeva un’epoca, quella dei grandi eroi a cavallo, un’epoca della quale, come scrive Georges Duby, “si nutriva in fondo al cuore una struggente nostalgia”.
Jacopo Lupieri