Quante volte, vedendo passare un bianco ben vestito davanti alla mia bancarella, ho gridato “Oibò, oibò!”.
Quante volte ho sperato che uno di quegli uomini si innamorasse di me follemente, tanto da portarmi a vivere in Europa con sé, come il principe si innamorava di ‘Nzinga la figlia del pescatore e la portava con sé tra i lussi del suo palazzo. L’ingenuità è la mia malattia peggiore, non morirò perché l’AIDS mi consuma lentamente, morirò d’ingenuità.
Il mio era solo un sogno, forse in fondo avrei preferito sposarmi con un giovane qualunque del mio villaggio, con Lawali, con Dembo, con uno qualunque di loro. Però non volevo essere una delle tante ragazze che rimanevano a vivere nella miseria di sempre, come era vissuta mia nonna e come viveva mia madre.
Non ho mai capito cosa pensasse mia madre della mia esistenza. A volte mi sembrava di essere la figlia che aveva sempre voluto, laboriosa, seria, che non si lamentava mai per i chilometri che la separavano dal pozzo e che bisognava percorrere ogni giorno, in mezzo agli spiriti maligni della brousse. Quando un giovane faceva circolare la voce che forse mi avrebbe chiesta in moglie, subito mia madre diventava aspra e mi negava quelle poche gentilezze che già raramente mi concedeva. Sapevo benissimo il perché di quel cambiamento repentino d’umore. Non era preoccupazione per l’agiatezza che il ragazzo avrebbe potuto offrirmi o per la mia felicità; l’unico motivo per il quale una madre può adirarsi con la figlia se questa viene chiesta in moglie è la dote.
Non posso biasimare i miei per questo loro meschino cruccio. La mia famiglia era tanto povera che neanche offrendo tutto ciò che possedevamo ai nostri dei avremmo avuto da essi la fortuna necessaria ad avere un raccolto sufficiente a pagare la famiglia del mio futuro sposo. Mio padre era vecchio, vecchia e scheletrica era la nostra mucca e il miglio non era rigoglioso: la brousse non è generosa né con gli animali né con le piante né tantomeno con gli uomini. No, non si parlava proprio di darmi in sposa ad alcuno dei miei tanti pretendenti, non fui nemmeno ingrassata bene. Il giorno in cui compii sedici anni sentii mia madre commentare con la vecchia Kadijia che ero sì buona a lavorare, ma che non sopportava più d’avermi in casa, era quasi indecente che a sedici anni non avessi ancora cucinato per un uomo e non mi fossi mai coricata con lui. La mia prima reazione fu di doloroso sconcerto perché mai,mai avevo immaginato che mia madre potesse pensare questo di me. Poi venne la rabbia per la falsità della donna che mi aveva messa al mondo, e infine una passiva risoluzione mi prese. Tornai alla capanna e raccolsi le mie ciabatte di plastica colorata. Erano quasi distrutte dai tanti chilometri che avevano percorso ma speravo che mi avrebbero ancora portata fino alla città. Mi congedai dalla casa e dal brullo villaggio circostante con un lungo sguardo e con la sensazione che non li avrei mai rivisti. Ora che mi trovo in questo continente in cui la brousse e la sua arida solitudine non esistono, darei tutto ciò che possiedo pur di tornare indietro per rivedere la casa di argilla e mia madre, china sulla soglia a battere il miglio da cucinare per la cena. Non mi congedai da nessuno. Nella mia cieca sofferenza di scacciata li ritenevo indegni persino di venire a conoscenza della mia partenza. Tanto, pensavo, lo verranno a sapere da soli quando si accorgeranno che colei che non si è mai coricata con un uomo non porge la mano per ricevere la sua scodella di miglio bollito. Non saprei dire con esattezza quanto impiegai per arrivare alla città. Come una bestia da soma abituata a fare sempre lo stesso percorso, conoscevo a memoria la strada per Benin City. Chilometri e chilometri nella brousse prima nel tramonto nigeriano che infuoca il cielo e poi nella notte più nera, in balìa degli spiriti della brousse. Ma ero talmente assorta nei miei pensieri da non accorgermi nemmeno della mancanza della Faccia Di Chiodi, il feticcio che allontanava dalle capanne le anime irrequiete degli alberi ritorti e dei corpi insepolti. Ricordo solo che quando raggiunsi rigida come un automa la via in cui ero solita sistemarmi con la mia merce dal fermento che mi circondava mi accorsi che era giorno di mercato. Risvegliata dall’atmosfera allegra che stava nascendo, mi accorsi che avevo i piedi contratti dal freddo nelle ciabatte e rilasciai i muscoli. Vagai per il mercato a lungo, forse tutta la mattina e a fermarmi fu una visione che allora definii spettacolare.
Che parlava con tono gentile e persuasivo con la venditrice, ritto accanto a un banco di verdure, c’era l’uomo più bello che avessi mai visto. Era alto, vestito con abiti occidentali puliti e nel sorridere scopriva un brillante dente d’oro. Così doveva essere parso a ‘Nzinga il suo principe, pari a un antico guerriero Masai valoroso e bellissimo. Quando si voltò verso di me rimasi trafitta dallo sguardo azzurro nel viso poco più che dorato, coronato da capelli accuratamente tagliati da un buon barbiere. Mi avvicinai a lui come soggiogata dal suo modo di fare persuasivo e lui sembrò gradire la mia decisione.
<<Ci vuoi venire, tu, in Europa con me?>> mi apostrofò quando gli fui vicina.
In un primo momento rimasi sconcertata d’aver subito trovato una persona tanto gentile da traghettarmi verso il mondo dei miei sogni di ricchezza e non risposi. Lui mi posò una mano sulla vita e disse:<<Dai, veniteci tutte e due che vi potrete comprare vestiti che qui neanche se li sognano. E il fidanzato, ce l’avete il
fidanzato? Se venite con me, poi gli spedite cellulari e tivù che non ce li ha neanche il Presidente. E a mamma vostra, la fate diventare una regina. Allora, ci venite con me in Europa?>>. Io e la ragazza del banco ci guardammo. Eravamo indecise ma probabilmente anche lei aveva a casa una madre che le faceva pesare
il suo sesso. Dicemmo di sì insieme, e il ragazzo ci disse di tornare l’indomani mattina in quello stesso posto con i naira necessari a comprare una mucca. Il mio cuore mancò un battito. Dove mai avrei potuto racimolare il denaro necessario e in così poco tempo?
Quando si allontanò lo seguii augurandomi con tutto il cuore che mi portasse in Europa comunque. Ad un certo punto si fermò presso la tettoia di un venditore di liquori, ed io gli rivolsi timidamente la parola, spiegandogli quale era il mio problema e offrendomi in cambio del biglietto di cucinare o pulire la nave durante il viaggio. Mi considerò a lungo, pensoso,e io mi sentii come spogliare da quel suo sguardo color del cielo nella stagione secca; infine sorrise con aria scaltra e disse che sicuramente mi avrebbe trovato un lavoretto perché potessi ripagargli il costo del biglietto.
<<Per il momento vieni a casa con me. Hai bisogno di dormire prima del viaggio.>>.Questo disse e io lo ringraziai infinite volte per la sua generosità: d’ingenuità morirò, e non d’altre malattie certo. Mi portò in giro con sè tutto il giorno ed io mi sentivo invidiata dalle ragazze che incontravamo: era una sensazione che non avevo mai provato e che mi sembrò bellissima. A sera giungemmo presso un palazzo piuttosto malridotto che pure sembrava una reggia in confronto alla capanna che avevo lasciato. Al terzo piano c’era il suo appartamento: il pavimento era ricoperto da un tappeto sudicio e dappertutto aleggiava un odore di cibo stantio e birra. Non appena ebbe chiuso la porta ed ebbe infilato la chiave nella tasca dei jeans mi prese per un braccio e mi sussurrò in un orecchio:<<Mai stato più facile accalappiare una ragazza. Adesso vedi come ti porto in Europa…>>. Io, sconcertata da questo improvviso cambiamento, pensai che forse si era pentito di avermi offerto un lavoro in cambio del biglietto e balbettai:<<Se vuoi che pulisca anche casa tua o ti cucini qualcosa in cambio del biglietto lo faccio…>>.
Mi guardò con disprezzo:<<Stupida…Voglio qualcos’altro da te, e lo voglio subito…>>.
Mi trascinò in quella che doveva essere una camera da letto e mi spogliò con una violenza che mi lasciò muta e incapace di reagire. Ciò che è seguito non vale la pena di pensarlo, fa male ricordare il possesso demoniaco e crudele con cui il Principe mi violentò, sfruttando il mio corpo come fonte di piacere per la sua mascolinità violenta e perversa. Al mattino, prima di uscire a caccia di nuove sprovvedute da iniziare a quella vita umiliante e dolorosa che io avevo appena sperimentato, mi rivolse uno sguardo beffardo e sibilò:<<Capito, puttana, come ti porto in Europa io?E facci pure l’abitudine, perché questa sarà la musica, d’ora in poi.>>. Qualche giorno e quelle che mi sembrarono infinite notti dopo, io e altre ventuno ragazze partimmo a piedi per la Libia, dalla quale saremmo poi partite in nave per l’Italia, nostra destinazione ultima. Nessuna delle altre ragazze aveva subito la mia sorte, erano ancora tutte illuse e credevano che ad aspettarle in Italia ci fosse una famiglia in cerca di una cuoca o di una donna delle pulizie. Senza accorgermene dovevo trattarle con sufficienza perché ero sempre sola, tutto il giorno. La notte invece era un susseguirsi di violenze, tutti e quattro gli scafisti si approfittarono ripetutamente di me ed io vi ero ormai quasi abituata, mi concedevo senza nemmeno farli alterare.
Poi un giorno arrivammo in Italia. La gente che ci circondava parlava di Palermo, Palermo, siamo a Palermo…Nella confusione del porto riuscimmo a raggiungere una serie di macchine che ci attendevano senza essere notate, e se qualcuno ci notò ricevette soldi per non parlarne.
Il viaggio in macchina fu terribile quasi quanto quello in nave: non ci fermammo mai per due giorni, le ragazze che si fermavano erano destinate al luogo in cui scendevano dall’auto:Catanzaro, Potenza e altri posti ancora. Io sarei andata a Napoli.
Appena arrivati in città ci dirigemmo verso un quartiere in cui i lampioni erano stati rotti a sassate e ad ogni angolo si vedevano ragazzi neri passare furtivamente bustine e pasticche a ragazzi bianchi eccitati e dalle pupille dilatate. La casa della nostra maman era grande, ci abitavamo saltuariamente in quindici ragazze ed era lei a darci i vestiti che mettevamo per andare al lavoro: gonne che faceva ridere chiamare così, top-
reggiseni di pizzo trasparente e altre volgari armature per noi guerriere della strada, noi sex workers come ci definivano i medici che talvolta passavano a distribuirci preservativi e predicozzi, usatelo sempre che se no vi ammalate…
Ma non erano loro a dover sopportare le manie di grassocci funzionari stufi della moglie e anche della segretaria, a dover subire la violenza di morigerati padri di famiglia che ci facevano tornare al buattone con il corpo sanguinante e pieno di lividi… Due realtà così diverse, la nostra e quella delle bionde dottoresse con una casa e un fidanzato dolce cui si concedevano con dolcezza…
Ora sono ancora a Napoli, e sono tutta per voi se volete vedere a cosa porta sognare le favole di ‘Nzinga e del suo Principe.
Chiara Murgia (1C)