Venerdì 1 febbraio 2013 si conclude un capitolo, nella storia degli exchange students negli U.S.A. Esattamente come a inizio agosto, quando la vita era diventata un frenetico tran-tran popolato da acquisti dell’ultimo minuto, valigie immense ed abbracci agli amici, così a gennaio il tutto si ripete.
Qui a Cincinnati ci si incontra con gli altri sei italiani ogni weekend, come del resto si è sempre fatto da inizio settembre, cercando di non prestare attenzione alle ore e ai giorni che ticchettano via troppo velocemente. Dietro alle risate si nasconde malinconia, dietro alle foto si cela il desiderio di fermare il tempo e bloccare la scena per sempre, quasi come dietro alla teca di un museo. Fuori il mondo cambia, ma dietro il vetro l’ambientazione è sempre la stessa.
E sebbene si siano passati i mesi precedenti a maledire la cultura statunitense, con il suo cibo grasso, la mancanza di indipendenza e le distanze enormi, alla fine ci si ritrova sempre a desiderare di stare ancora un po’. Di posticipare il più possibile la partenza per paura delle lacrime che verranno versate e perché, in fondo, una parte del cuore è ancorata negli States e non si vuole staccare.
Allo stesso tempo, gli amici in Italia fanno venire voglia di tornare il più presto possibile. Intasano le bacheche su Facebook, organizzano feste, programmano uscite la sera, sbronze e festeggiamenti. Tutto, pur di far sentire i pionieri di nuovo a casa. Qualunque cosa per dimostrare loro quanto siano mancati dallo scenario, in questi mesi trascorsi all’estero.
Questo affrontiamo noi exchange student: una doppia vita. Che comincia dal momento in cui ci immergiamo nel fiume della nuova cultura e non ci abbandona più. Gli amici in Italia ci sono sempre, ma non sono altro che figure lontane che commentano le nostre foto su Facebook e ci chiamano su Skype. Ombre rappresentanti una realtà distante e totalmente diversa da quella in cui ci siamo oramai abituati a vivere. Nomi che ci ricordano di com’era la nostra vita solo sei mesi fa, con i sabati sera, i diciottesimi, le interrogazioni, le serate in discoteca … Baluardi a cui si ancora il nostro desiderio di tornare a casa.
Allo stesso modo esistono gli amici americani, se così si possono definire. Persone che hanno sentito voci di coetanei nella scuola provenienti dall’Italia (dall’Europa, un luogo che è quasi fantastia) e hanno deciso di farci amicizia. Gente che si è fatta raccontare fino allo sfinimento com’è la scuola, il cibo, a che età si possono bere alcolici o fumare sigarette, quando si prende la patente. Figure che, nella maggior parte dei casi, cominciano a considerarci solo quando realizzano che stiamo per partire per non tornare più. Membri di una cultura vista nei film e ascoltata nelle canzoni, che si è aperta davanti ai nostri occhi come un libro che ci ha assorbiti e di cui siamo diventati personaggi.
E poi ci siamo noi.
Neo-diciottenni o quasi, sopraffatti da regali, prodotti di fantastici saldi, vestiti nuovi e troppe poche valigie. Troppo poco spazio per troppa roba. Si spediscono scatole a più non posso ma non basta, e già i genitori si lamentano del costo spropositato del servizio postale oltreoceano. E intanto il tempo passa inesorabilmente, costringendoci a pensare all’ultimo cheesburger, l’ultimo pancake, l’ultima schifezza che in Italia non troveremo mai. L’ultimo sfogo sul cibo, perché una volta tornati a casa si comincia una dieta seria.
Noi, anello di collegamento tra due catene di culture simili all’apparenza, ma totalmente diverse una volta che le si conosce bene entrambe. Noi, la cui valigia non scoppia per colpa della massa di vestiti, quanto per la quantità di cose che abbiamo imparato in questi mesi. E non si parla del notevole miglioramento nel nostro Inglese. Noi, che dal momento in cui abbiamo messo piede sull’aereo con destinazione “Stati Uniti d’America” abbiamo creato un collegamento speciale che non è espresso dalle foto su Facebook.
Ma questo non è dal punto di vista di chi parte, bensì di chi resta. Di chi, come me, quel venerdì si è trovato all’aeroporto ad abbracciare dei coetanei che in poche ore si sarebbero trovati a casa. Di chi, come me, aveva nel cuore anche un po’ di gelosia e desiderio di tornare in patria a sua volta. Di chi ha aiutato a sollevare la valigia sulla bilancia, sapendo di essere una delle due persone che ci si sono sedute sopra per cercare di chiuderla.
Poche lacrime, tante promesse di rivedersi: così si salutano gli exchange students. Compagni di avventure, la cui separazione lascia un vuoto nel cuore che sembra dire: “E io qui adesso con chi lo parlo l’Italiano?”.
See you back in Italy, folks!
Matilde Revelli,
Corrispondente dagli Stati Uniti