Si parla di democrazia. Nelle scuole, a Montecitorio, sui giornali, nei salotti televisivi. Sulla bocca di ogni buon cittadino c’è la democrazia: quell’invenzione tutta europea sospirata, levigata attraverso i secoli, perfezionata con l’arte paziente di un buon pigmalione. Eppure dopo tanti sospiri, dopo tanta dedizione e numerosi studi eruditi sullo stato, il governo del popolo sembra ancora troppo spesso rinchiuso nella sua prigione di marmo. Davanti all’immagine fredda di un’Italia scolpita grossolanamente, l’Italia dei tagli, delle crisi, dei cambi e delle incertezze, la domanda proposta inaspettatamente da un sindaco argentino sembra realmente risuonare d’oltreoceano: “I giovani italiani si interessano di politica?” Inevitabile l’amaro sorriso di disillusione di fronte ad un sistema che ai giovani, negli ultimi vent’anni, ha offerto (ma non gratis) ideologie svuotate, parole fumose, favoritismi, volti noti (spesso “ricercati”), populismo esasperato, bipolarismo inefficace, sedute in parlamento degne della WWE.
Difficile quindi interessarsi ad una situazione che, ben lontana dall’essere comprensibile, offre le stesse possibilità di un’azienda in pieno crack finanziario. Difficile credere che si tratti davvero di governo del popolo. Risuonano ancora parole come “tanto votare non serve a niente”, “fanno tutto quello che gli pare!”, pronunciate davanti ai seggi delle ultime amministrative. Sembra quasi che i cittadini col gioco politico non vogliano avere nulla a che fare, che lo guardino dall’alto in basso scivolando lentamente in una fredda forma di cinismo a volte non troppo lontana dall’indifferenza. Puntiamo il dito. Puntiamo il dito sulla corruzione e sugli scandali. Puntiamo il dito sulle riforme che regalano privilegi e sulle riforme che tagliano. Puntiamo il dito sui politici e sui tecnici. Puntiamo il dito sulle battute oscene e sulle lacrime dei ministri. Puntiamo il dito sull’Italia, che non riesce a trovare chi eviti il collasso fra i 900, tra onorevoli e senatori, che evidentemente hanno dimenticato di essere anche un po’ tecnici. E puntiamo il dito sull’Europa che ci mette alle strette, con i suoi sorrisi complici alle spalle del Bel Paese bisognoso di un salvataggio estremo. L’incaricato delle operazioni di soccorso, il nostro SuperMario (poco brother però), non viene certo risparmiato da un Paese che ha ormai smesso di credere nei super poteri.
Polemica e delusione, però, caro sindaco argentino, non per forza sono sinonimo di indifferenza. Il senso “auto”critico di cui pare gli italiani non riescano proprio fare a meno continua a farsi sentire, è vero, e con voce sempre più forte. Le lamentele crescono, le dita sono sempre più puntate, il sorriso indubbiamente è sempre più amaro. Atteggiamenti e stati d’animo, almeno in apparenza, estranei ad europei più patriottici, ma che – come ci ricorda Gaber – “per fortuna o purtroppo” ci sono.
C’è bisogno di far sentire la voce, anche nel disamore. E’ necessario alimentare la discussione politica, le polemiche rappresentano il nostro bisogno di democrazia. La critica è anche segno d’appartenenza. In fondo, “la libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone; la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”.
Federica Baradello (5F)