L’assenza di struttura, la mancanza di un vero soggetto, il cinguettio degli uccelli. Queste le caratteristiche principali di un documentario misto visual art quasi incomprensibile, se non si sa con che occhi guardarlo.
Su questa pellicola è impressa la battaglia interiore di Amparo Garrido per ritrovare la forza di vivere dopo la morte improvvisa del suo migliore amico. La regista, guidata da un ornitologo cieco, racconta così ”Il silenzio che resta”.
Manca un’idea alla base di quest’opera: non c’è mai stato un copione né una traccia da seguire. Inizia come un documentario sulla singolarità di uno uomo che, privato della vista, riconosce centinaia di uccelli dal loro canto. Sfuma col susseguirsi delle stagioni, che scandiscono il film, in un’esperienza artistica da cui scompare ogni figura umana e in cui l’unica voce a interrompere il silenzio è quella degli uccelli. Questa mancanza di organicità è quello che vuole essere trasmesso: si esce dalla sala perplessi, forse con la sensazione di aver sprecato un’ora del proprio tempo, ed è lì che il film si sta veramente realizzando. Il soggetto, apparentemente assente, è in quella confusione, in quel sottile sconvolgimento che racchiude in miniatura il caleidoscopio sentimentale dell’artista.
Prima di entrare in sala si sappia che è un film di quelli in cui è facile il sonno, ma bisogna sforzarsi di arrivare alla fine per poter cogliere, uscendo dalla sala, el silencio que queda.
Gabriele Pujatti