The (In)Human Body

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inhuman-bodyCi vorrebbe Banksy.
Già, proprio il personaggio misterioso che gettò manciate di banconote inglesi (stile Robin Hood) con la faccia derisoria di Lady D. al posto di quella di Elisabetta – rischiando di causare un tracollo finanziario – dipinse a colori vivaci la striscia di Gaza ed “impiccò” un membro del Ku Klux Klan.
Vorrei che apparisse con la sua facoltà di “uomo invisibile” – anch’io penso che starebbe davvero bene con Jessica Alba – facesse sparire cervelli e polmoni e, magicamente, li sostituisse con carta straccia o palline colorate.
Parlo della mostra al momento qui a Torino: “The Human Body” al Palaisozaky, dove la scintillante attrattiva del morboso è celata sotto un’apparenza scientifica che puzza di lavaggio del cervello anche a chilometri di distanza.
Il costo del biglietto è di quindici euro e la “mostra” è composta da un “percorso attraverso il corpo umano” – che di umano ha solo le sembianze, dato che sia umanità che dignità (oltre ad ossa ed organi, a quanto pare) sembrano essersi stranamente eclissati.
Dove sta la differenza tra questa mostra e qualsiasi altra finora inaugurata? Semplice: i corpi sono veri.
Tralasciando il senso dell’umano e del buon gusto brutalmente violati, la prima domanda che mi è saltata in mente è stata: “Quale essere umano vorrebbe vedere il proprio corpo scarnificato, disossato e “plastinizzato” come un pollo nel bel mezzo di una sala, sotto gli occhi di tutti?”. A quel punto è iniziato il travaglio. Cercando in Internet, le informazioni che si trovano sono poche e discordanti: dapprima sembrava che i cadaveri fossero corpi di criminali coreani condannati a morte (piuttosto inverosimile, in realtà, dato che ogni tipo di messa a morte rovina l’organismo), poi è venuto fuori che invece sono persone che hanno donato i propri resti alla scienza con atto formale (ma in ogni caso qui siamo veramente oltre i limiti dell’umana sopportazione) ed infine, – proprio nelle sale dove si tiene l’esposizione, uomini e donne in pittoresco camice bianco – laureandi/specializzandi della Facoltà di Medicina – spiegano che i corpi appartenevano a persone trovate negli obitori degli ospedali e i cui resti non erano mai stati reclamati da alcun parente.
Ma la limpidezza dove la mettiamo? L’idea di funerale civile è estranea a quelle persone?
Tralasciamo anche questo.
Quello su cui non si può più sorvolare è il messaggio che si può cogliere sotto l’atto di ideare tale mostra: è come se le persone, dopo la morte, smettessero di essere tali per diventare solo dei gusci vuoti.
Come se, con la morte dell’essere umano, morisse con lui anche la sua dignità, il rispetto a lui dovuto in quanto nostro simile.
Corpi di uomini e donne, con gli occhi aperti e vitrei (personalmente sono stati i loro occhi a convincermi a protestare contro questa triste vicenda), senza pelle, senza nome, senza ossa e carni nudi, duri e freddi … Uomini e donne che prima avevano pensato, mangiato e dormito, studiato, lavorato, costruito e realizzato tutto ciò con cui ognuno di noi si trova costantemente a contatto, ogni giorno. Persone che, come noi, avevano vissuto ed amato, persone che avevano fatto parte dell’ecosistema, contribuito a migliorare o peggiorare il pianeta, che ora si ritrovano lì.
Come se, non potendo più parlare, con loro si fosse assopito anche il diritto di farlo.

Giulia Beltramino (3B)

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