Tratto da una storia vera

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sangueViaggiando su un tram imperlato di pioggia il mio stordimento, condensato in uno sguardo vuoto e fisso sulla scritta “Fermata prenotata”, fu disturbato da un rumore estraneo (ma non troppo) alla sinfonia mattutina del centro città: una signora infagottata salì sul mezzo con tanto fervore che sembrò volerne rivendicare la proprietà.
In quanto nuova ed indiscussa padrona del piccolo regno traballante su ruote, si sentì subito in diritto di rendere partecipi gli altri viaggiatori di una telefonata particolarmente strillata, che si svolse pressappoco così:

“Ma sì, lutto nazionale! Figuriamoci se posso interrompere la riunione, chi vuole se ne starà in silenzio dopo. (Pausa) Ma infatti, muoiono soldati italiani tutti i giorni e ci caliamo le braghe davanti a ‘sti morti di fame. Che poi sono dei coglioni, ad imbarcarsi senza giubbotti gonfiabili … Se poi penso che non sapevano nemmeno nuotare …”

Ebbi allora la chiara presa di coscienza del fatto che esistono persone in grado di cancellare in trenta secondi netti ogni speranza si possa avere nei confronti del genere umano.

Mi alzai e cominciai a torturare il lettore musicale, cercando uno di quei prodotti commerciali nati per non far pesare alla società contemporanea il fatto che la critica musicale sia fondamentalmente morta. Tunz Tunz per intenderci. “Musica” nata dalla decadenza della civiltà, per farci tornare ai ritmi tribali, per farci tornare nelle caverne dove alberga la bestialità. Tunz Tunz.
Posai borsa e cappotto a terra, sorridendo ad un settantenne che mi squadrava in quella maniera esplicita, tipica di chi ha vissuto troppo per aver ancora voglia di nascondersi dietro artificiose discrezioni e pudicizie. Gli chiesi cortesemente se avesse potuto prestarmi il suo bastone da passeggio ed annuì reticente.
Presi il legno e mi diressi verso la matrona, impegnata telefonicamente su questioni riguardanti una tale Katia, alla quale, probabilmente, in quel momento le orecchie stavano fischiando come locomotive.
Allargai bene le gambe, per non perdere l’equilibrio; sollevai il bastone e glielo spaccai sulla schiena, in maniera che, tanto per cominciare, avesse finalmente un motivo valido per strillare.
Cadde a terra, imprecando e dimenandosi fastidiosamente, così che decisi di prenderle a calci la bocca dello stomaco, come avevo visto fare in tanti film: blocca la respirazione per qualche secondo. La verità è che ci presi gusto e continuai anche quando ormai la donna boccheggiava ad occhi sbarrati. Poi passai al volto, perché quell’espressione allucinata poteva turbare l’innocenza di un bambino seduto sulle ginocchia della mamma poco lontano. Decisi di sfigurarlo meglio che potevo, ma come le ruppi il naso mi dispiacqui dell’immenso quantitativo di sangue che, oltre a macchiarmi le scarpe nuove, stava riversandosi a macchia d’olio sul pavimento del pullman. Guardai verso la cabina del conducente e gridai con tono colpevole: “Mi spiace! Con un po’ d’acqua fredda dovrebbe andar via!”. La sagoma dell’autista si sporse, diede un’occhiata e mi fece un gesto di noncuranza prima di riprendere la sua lotta contro la chimera del traffico mattutino.
Ripresi soddisfatta la mia mattanza fatta di calci e pestoni, mentre un po’ di passeggeri si scostavano di poco per evitare gli schizzi rossi che zampillavano allegramente attorno, ogni qualvolta il mio entusiasmo mi trascinava con eccessiva euforia. La maggior parte di loro leggeva, o guardava distrattamente un punto vuoto. Altri seguivano con scarso interesse la mia performance artistica.

“Ma sì, urliamo pure al cellulare! Figuriamoci se smetto adesso, proprio ora che mi sto finalmente sfogando; se vuole che non le faccia male può anche smetterla di dire boiate. Tutto il giorno la gente attorno a me spara cazzate, e devo sorbirmi pure le sue di prima mattina?! E poi lei è cogliona, a salire sul pullman senza sapersi difendere dalle botte! Se poi penso che non riesce nemmeno a smettere di sanguinare così tanto, guardi, sta imbrattando tutto!”
Ormai la maschera di sangue emetteva solo più un mugolio soffocato. Quando mi venne il fiato corto, mi fermai. Il mio sguardo cadde allora sull’estintore tipicamente mal fissato alla parete ed ebbi l’illuminazione finale: lo sollevai a fatica (sono delicatuccia, sapete?) e lo scaraventai addosso all’ammasso di carne spalmato a terra.
Infine indietreggiai di qualche metro e ammirai orgogliosa il paesaggio tarantiniano che ero riuscita a dipingere in appena tre fermate di tram: una bella farfalla sanguigna di dimenava spasmodicamente su uno sfondo di indifferenza grigia e silenziosa. Tirai fuori il cellulare e scattai una foto.

FLASH

La scritta rossa “Fermata prenotata” s’illuminò a venti metri dalla fermata; l’autista accostò bruscamente per permettere alla signora di scendere e continuare le sue discussioni su Katia da una’altra parte, lontano dalle sue orecchie.
Il settantenne continuava a fissarmi imperterrito, col suo bastone stretto in mano.
David Guetta venne sostituito allora dal canto disperato di Violetta.
Sì, amala Alfredo. C’è così tanto bisogno di amore. Un amore carnale, spirituale, civile.
Basta rabbia.
Basta stolido cinismo.
Basta ignoranza volontaria.
Basta maligne verbosità strillate al telefono nella vana speranza di superare l’orrore che ci circonda.
Perché, cara signora, se proprio non vuole cominciare a comportarsi da persona civile per ragioni morali, può cominciare a farlo per una questione di sopravvivenza: quello che accade oggi agli altri, domani può accadere a lei.
E si ricordi: l’inciviltà verbale genera inciviltà mentale, in lei e in chi le sta intorno.
Buona giornata.

Eugenia Beccalli

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