Treno della memoria 2009

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Treno della Memoria 2009

Foto di Stefano Castello (5D)

Foto di Stefano Castello (5D)

In attesa del reportage dettagliato che sarà a disposizione dalla prossima settimana, cominciamo a pubblicare le impressioni “a caldo”, le sensazioni e le emozioni di un viaggio “stra-ordinario”… di ritorno da

Auschwitz

Il tepore del sole smorzato dalle nubi non riesce a raggiungere i nostri volti;
scarni, spenti, morti.
Qui è sempre inverno.
I più fortunati s’abbandonano, stanchi di respirare, nella gelida neve, sporca di odio e dolore.
Ordini folli, grida.
Un rumore perenne: i pianti di donne, uomini, vecchi e bambini.
Il treno sulle rotaie ricorda il battito del cuore che ormai non ha più senso ascoltare.
Ci hanno portato qui, chiusi a centinaia dentro quei vagoni carichi di morte;
una volta varcata la soglia del campo l’unica via d’uscita è attraverso i suoi camini, bruciati, da vivi o non più. Unica colpa: l’innocenza.
Ci portano via i figli, ci separano dalle nostre mogli, ci frustano e ci torturano.
Conosciamo l’inferno prima del tempo, lo viviamo.
Nella fabbrica di morte aspettiamo che l’anima di cui ci hanno privato voli di nuovo libera, lontano dalla pazzia, lontano dalla sofferenza. Lontano da Auschwitz.

Lorenzo Eula (2E)

Foto di Stefano Castello (5D)

Foto di Stefano Castello (5D)

Ad Anna Pilch

Anna Pilch era un’insegnante polacca.
Anna Pilch era ebrea.
Anna Pilch aveva un bel viso.
Anna Pilch non la ricorda nessuno probabilmente.
Anna Pilch è morta nel 1944.
Anna Pilch è cenere ormai.

Anna Pilch mi ha voluto raccontare la sua storia. Lo ha fatto in silenzio, prendendomi per mano e accompagnandomi a vedere dove ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita. I suoi occhi chiari, rassegnati e freddi, mi hanno fatto capire che le mancava la sua famiglia, i suoi allievi. Guardando il suo volto scarno ho percepito la fame, stringendo la sua mano debole ho capito che le disumane fatiche e le terribili violenze le avevano tolto ogni speranza.
Anna Pilch mi mostrò il binario in cui si fermò il suo treno proveniente da Varsavia. Il tragitto non fu molto lungo, ma nel carro bestiame che l’aveva portata fino a Birkenau aveva già intuito che cosa le avrebbe riservato il futuro. Mi ha raccontato che su quel vagone si conoscevano quasi tutti: avevano vissuto insieme nel ghetto di Varsavia, dove le condizioni di vita erano pessime. In quella carrozza alcuni suoi conoscenti morirono, stremati dal freddo e dalla fame. Non poteva fare a meno che pensare alla morte: era certa che molto presto avrebbe abbracciato anche lei o, peggio ancora, qualcuno dei suoi familiari di cui portava le foto con sé nella valigia.
Quando le porte si aprirono scesero tutti dal vagone, sudici ed infreddoliti. In quel luogo risuonava una musica allegra, però nessuno cantava: si potevano soltanto sentire urla straniere. Le indicarono una baracca, nella quale avrebbe dovuto recarsi. Quando iniziò a camminare su quella spessa coltre di neve, le strapparono di mano la valigia, che gettarono sopra ad altri, innumerevoli bagagli.
Quando raggiunse la baracca la privarono dei vestiti, la visitarono. Era sana: poteva lavorare. Le tatuarono un numero sull’avambraccio, le fecero indossare una casacca a righe blu e bianca, sopra la quale dovette apporre un simbolo speciale, che la identificava come ebrea. I suoi vestiti vennero sterilizzati e mandati ai cittadini tedeschi così come le sue scarpe, che dovette sostituire con un paio di zoccoli di legno.
Le tagliarono i capelli scuri e la portarono nella sua nuova dimora: un prefabbricato in cemento, costruito dai prigionieri di guerra sovietici. Per mesi dovette dormire su alcune assi di legno e un po’ di paglia, accanto ad una decina di altre donne rassegnate quanto lei. Non le venne data nessuna coperta: di notte la neve o la pioggia riuscivano a raggiungerla dalle fessure presenti tra le pareti e il tetto.
Si ammalò molto presto. Il suo intestino non sopportava quel freddo e quella dieta: al mattino le veniva concessa una tazza di decotto, che preferiva non bere completamente poiché molto spesso ne utilizzava un po’ per lavarsi, visto che l’acqua scarseggiava. Durante tutto il giorno doveva lavorare e dopo l’appello, alla sera, le veniva servita in una ciotola di alluminio un po’ di zuppa. Gli ingredienti erano vari e molto spesso ci trovava addirittura bottoni, schegge di vetro, lacci di scarpe:  i cuochi del campo raccoglievano infatti dai carri bestiame ciò che i deportati lasciavano nei loro vagoni, gettandolo poi in quella brodaglia giallastra. Riceveva inoltre trecento grammi di pane nero, che sarebbe dovuto bastare anche per la colazione. Una volta provò a lasciarne un pezzo per l’indomani, ma glielo rubarono.
Mi mostrò i bagni: una lunga fila di latrine, distanziate tra loro di qualche centimetro. Il tempo per i bisogni personali era limitato: al mattino prima dell’appello e alla sera dopo l’appello. Era il Kapò a decidere quanto tempo avrebbero avuto a disposizione i prigionieri della sua baracca.
Un giorno di febbraio Anna Pilch morì. Non ha voluto raccontarmi come, ma anche lei è stata bruciata dentro un forno prodotto dalla fabbrica Topf. Le sue ceneri si sono mischiate a quelle di tanti altri cadaveri, salme delle uniche persone che in vita avevano potuto davvero compatirla.
Anna Pilch mi ha fatto capire ciò che è stato, mi ha fatto vedere ciò che è ancora oggi. Anna Pilch me l’ha fatto nuovamente notare: io non sono e non voglio essere.
Anna Pilch resterà indimenticata. Anna Pilch protegge la fiamma di un lumino che ho accesso e che, spero, possa illuminare le notti di Birkenau, che possa far luce sull’oscurità che ancora oggi regna sul mondo sovrana.

Stefano Castello (5D)

Foto di Stefano Castello (5D)

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