Troppo dolce per la divisa

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Mi siedo sulla panchina e raccolgo le gambe contro il petto. Appoggio il mento alle ginocchia e mi stringo le braccia. La giacca è bagnata, mi sono asciugata il viso con la manica. L’umido mi fa lasciare la presa con un brivido. Mi copro il viso con le mani ma le lascio ricadere subito. Sono umide.

Il primo colpo mi ha fatto voltare il viso di scatto, ho sentito i muscoli del collo tendersi di colpo. Un dolore lancinante mi ha fatto stringere convulsamente le mani attorno alle braccia. Più che il ceffone mi ha fatto male il fatto che fosse la sua mano a colpirmi. Il mio corpo doleva di sorpresa, le prime lacrime che sono scivolate sulle mie guance erano le lacrime di una bambina che vede sciogliersi la neve nelle sue mani. Tre anni mi si erano sciolti su una guancia. Tre anni in meno di un secondo, in un gesto. Mi ha detto di smettere di piangere, gli è passato negli occhi un lampo di paura. Ho avuto il tempo di chiedermi cosa potesse temere. Poi c’è stato il secondo colpo. Un pugno su una bocca che indipendentemente dalla testa aveva cominciato a dirgli basta, basta, basta. Mi sono resa conto che ero sveglia solo quando una goccia rossa mi è caduta sul petto ed è scivolata nella scollatura. Una goccia calda sulla mia pelle intrisa di sudore freddo. Ho cominciato a vedere la testa bruna contro il termosifone, i capelli si sono allungati fino a coprirmi gli occhi in una carezza pietosa. Ho pensato che avevo perso, che avevamo perso tutte e due, che aveva vinto lui. Poi ho sentito solo i colpi che continuavano a cadere insieme alle urla. Piantala, piantala, piantala, che cosa piangi, piantala. All’inizio usava solo le mani. Poi sono caduta a terra e le mie lacrime e il mio sangue sul tappeto gli fanno usare anche i piedi; sento le scarpe che mi colpiscono il seno e il ventre, le gambe. Il viso no. Forse ha già avuto la sua parte. Adesso mi afferra i capelli e mi tira su. Sono in piedi di fronte a lui; riesco ad aprire gli occhi congestionati dal sangue e dalle lacrime che ancora non riesco a trattenere. Lo vedo di nuovo tremare dentro quando mi guarda negli occhi. Di cosa ha paura, di cosa, di cosa. Mi lascia cadere di colpo e io scivolo contro il muro, il giallo limone si macchia di rosso. Lo sento sussurrare con un tremito di smetterla di piangere, cazzo. Una fitta al labbro. Ha paura di se stesso. Ha paura di dove lo possa far arrivare vedermi piangere sotto i suoi colpi. Ha paura. No. Non ha paura. Ha scoperto l’unico modo che aveva per piegarmi. Bastardo. Ha scoperto che vedermi per terra gli piace, forse più che fare l’amore con me. O forse non lo sai ma pure questo è amore. No. Questo è lui davvero e ha vinto, hanno vinto loro. Il mio corpo si contrae di scatto a questo pensiero. Ho vissuto vent’anni, una vita piena per far vincere lui, loro. No. Appoggio le mani per terra, un dito non si piega senza che io gema. È l’anulare sinistro. Rotto. Faccio forza sulla destra per alzarmi, mi appoggio contro il muro. Piano, ci sono, sono di nuovo in piedi. Lui è seduto con la schiena contro la colonna del corridoio e non mi guarda, ha gli occhi vuoti, quasi neri, ci vedo dentro una me stessa bagnata di sangue e completamente distrutta. No. Una me stessa bagnata di sangue ma in piedi. Lo specchio mi restituisce l’immagine di un viso tumefatto. Il buco al naso è una striscia rossa da cui esce sangue, la bocca è spaccata a metà e sanguina, ho i denti rossi. C’è l’impronta della sua mano sulla mia guancia destra. Netta e precisa, la genesi di un mare di sangue che mi copre tutta. Mi tiro su la maglia e mi accorgo che il ferretto del reggiseno mi ha lasciato un livido dove mi ha tirato il primo calcio. Il secondo mi ha lasciato un segno nero sulla pancia. Faccio quello che non ho avuto di fare il coraggio fino ad ora. Mi guardo negli occhi. Non sono rossi. Grazie, provo a sorridere, ma non posso. Gli passo davanti con il giubbotto e la borsa. Non mi vede, anche se mi vedesse non importerebbe.

Stringo ancora più forte le braccia e mi accorgo che piove. C’è qualcuno che piange con me o forse io piango talmente tanto che mi sembra di annegare. Afferro la borsa. È sotto i fazzoletti sotto il cellulare sotto il libro. Eccolo, eccoli. La plastica protegge la carta dalle mie dita bagnate.

 

Ha un viso decisamente troppo dolce per la divisa.

«Dimmi tutto.»

«Devo fare una denuncia.».

Mi guarda, chiude gli occhi e fa un cenno verso destra. Imbocco il corridoio. Riesco a sorridere.

Chiara Murgia (1C)

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