Vicino al confine tra Messico e Stati Uniti c’è Ciudad Juárez, la capitale degli omicidi. Nella redazione del quotidiano El Diario de Juárez, c’è una lavagna bianca. In cima c’è scritto ‘no borrar’, non cancellare, e sotto, un elenco di mesi con accanto un numero.
Da gennaio a dicembre del 2007, 316. Gennaio 2008, 48. Ottobre 2010, 359.
Ogni mese i redattori del quotidiano tirano le somme di quanti assassinii sono stati compiuti dai membri dei cartelli che dominano la città. Muoiono poliziotti e giovani sicari, e sono di Ciudad Juárez le quattrocento donne che sono state vittime dei femenicidios che hanno reso nota la città.
Muoiono i fotografi che danno un volto ai nomi delle vittime che riempiono gli articoli di cronaca nera.
E muoiono i giornalisti che scrivono la verità. Il nome di Armando Rodríguez, firma di 907 articoli sul dominio criminale che opprime la città, sull’edizione del Diario del 14 Novembre 2008 è una parola come tutte le altre, sembra persa tra le tante dell’articolo. Questa volta, i cartelli che ha denunciato lo hanno fatto smettere di scrivere per sempre.
Anche sua moglie, Sandra Rodríguez, è giornalista. È lei che spesso risponde alle telefonate che annunciano al giornale l’ennesima tragedia.
«¿Qué pasó, compañero?», domanda invariabilmente. Le risposte sono sempre le stesse. Un’autobomba esplosa nel centro della città, una sparatoria tra membri di cartelli opposti, una macchina crivellata da colpi di pistola.
Spesso le vittime sono dei perfetti sconosciuti per la redazione, ma a volte no. Il 16 Settembre 2010 un altro nome si è trovato fuori posto: Luis Carlos Santiago, fotografo, viene ucciso durante la pausa pranzo nel parcheggio di un centro commerciale. Adesso anche il suo nome è una parola persa tra le tante dell’articolo di cronaca nera che annuncia la sua morte.
Accanto alla testata del giornale c’è un fiocco nero, che «esige giustizia dal presidente Calderón». Fino al 15 settembre solo per Armando, poi anche per Luis Carlos. La esige ancora dopo due anni e continuerà a farlo, perché il governo pare fatto della stessa pasta dei criminali che dominano Ciudad Juárez.
In Italia, Roberto Saviano vive sotto scorta per aver scritto “Gomorra”. A Ciudad Juárez, dove la cocaina low cost e quella raffinata destinata ai ricchi clienti nordamericani transitano senza alcun problema, la polizia è troppo impegnata a ricevere mordidas, bustarelle, per proteggere un giornalista in pericolo.
Il risultato è che qui l’idea di un uomo con la biro che vince quello con la pistola suona retorica. Parlare di senso del dovere, di condivisione dei propri doni, di memoria della gente che dà eternità sembra davvero fuori luogo. Ci si sente in imbarazzo perché qui non si tratta di begli aforismi, ma di realtà quotidiana. Come per Roberto Saviano, tutto sommato, solo che lui è sotto scorta e sarà difficile che venga crivellato di colpi mentre accompagna a scuola la figlia di otto anni, come è successo ad Armando Rodríguez.
Trovarsi a confronto con una realtà dove un’ingiustizia che la nostra società sta riuscendo a sconfiggere perché possiede i mezzi per farlo, compie stragi, impunita, fa riflettere. E fa nascere il dubbio che parlare sia molto facile, quando si hanno a disposizione delle forze dell’ordine abbastanza oneste, o quando lo scoppio di un’autobomba nelle vie del centro è un evento piuttosto raro. Fa pensare che, nonostante tutto l’orrore della mafia, ci si può ancora ritenere fortunati, perché si è riusciti a cambiare già qualcosa.
Fa pensare che tutti gli uomini con la biro del mondo debbano avere lo stesso diritto a sopravvivere, anche se vivono nella capitale degli omicidi.
Chiara Murgia (2C)