E quando pensavo di saperne abbastanza di apartheid, lotta per i diritti dei neri, schiavitù, genocidio degli indigeni da parte dei conquistadores ecco che, arrivata a scuola, mi ritrovo circondata da magliette arancioni e uomini dalla pelle scura e gli occhi a mandorla che cantano canzoni tradizionali battendo il tempo con dei tamburelli. Ogni tanto si interrompono per raccontare degli aneddoti, usano il termine scuole residenziali e ringraziano per la giornata loro dedicatogli.
Una donna racconta di essere stata strappata alla sua famiglia, di avere avuto cinque anni, di non sapere l’inglese, di essere stata punita per aver chiesto a un compagno nella sua lingua nativa cosa l’insegnante avesse appena finito di dire.
Fu così che scoprii che nemmeno il Canada, paese famoso per il suo altruismo, è sato esente da atti di violenza inflitti dalla maggioranza nei confronti della minoranza. Scoprii che il Canada riconosce la presenza di tre gruppi di “aborigeni”: gli inuit, i métis (cioè i meticci) e le Prime Nazioni (cioè gli abitanti nativi della parte più meridionale del paese), tutti e tre coinvolti dal fenomeno delle scuole residenziali. Queste sono il frutto di una serie di leggi approvate nel corso del XIX secolo per evitare che i popoli autoctoni si ribellassero per ottenere l’indipendenza e con lo scopo di “assimilarli” alla cultura occidentale.
E fu così che con l’obbiettivo di estirpare sul nascere le erbacce dal giardino vennero create le scuole residenziali dove i nativi americani subirono ogni sorta di violenza: il primo giorno erano privati dei loro capelli e dei loro indumenti; il secondo del loro nome e della loro lingua; il terzo della propria cultura e tradizioni; il quarto sapevano che, una volta usciti, non sarebbero più stati gli stessi.
Furono costretti ad annullare se stessi, chi erano, ciò che rappresentavano. Cancellare la propria identità, nome, religione, cultura, lingua. Un nuovo nome inglese era pronto per loro, così come un’uniforme dal taglio europeo. Nelle scuole, gestite in parte dalle varie chiese del paese, dovevano abbandonare la religione e la lingua nativa in favore del cristianesimo e dell’inglese. Lasciato per sempre il cancello arrugginito della scuola, guardavano le loro tasche vuote chiedendosi se fosse l’unica parte ad essere priva di contenuto, le tasche. Lanciavano un’occhiata alla strada domandandosi se ce ne fosse una anche per loro, se li aspettasse una meta, da qualche parte. Viaggiavano con la mente affollata di dubbi e offuscata dai ricordi. Si ritrovavano a guardarsi attorno senza più riconoscersi fra nessuno di chi vedevano per strada, non fra i bianchi, non fra gli altri indiani, sentendosi estranei nella loro stessa casa. Il tentativo di ricostruire la propria vita falliva spesso miseramente perché l’istruzione ricevuta era pessima e gli insegnanti non qualificati. Si ritrovavano marchiati a vita. Sviluppavano malattie e disturbi mentali. Fra i corridoi sovraffollati, sui letti freddi e scomodi nelle grandi camerate e nelle aule stipate di ragazzi, circolavano epidemie come la tubercolosi che, quasi egoisticamente, li strappavano alla vita.
Se la morte non li scopriva intenti a fuggire nel gelo della notte, allora prepotenza, abusi e violenza li aspettavano al risveglio. Molti non potevano vedere i genitori per anni. La solitudine, la nostalgia, la sofferenza che a lungo li avevano attanagliati in quelle scuole sono continuate nei loro incubi nonostante il passare del tempo.
E lì, soli, nelle zone più fredde e selvagge del Canada, circondati da enormi e spettacolari foreste di pini, accerchiati da puma e orsi, l’unica cosa che davvero impararono fu la vergogna. Questa s’insinuava fra i gessetti sulla lavagna, i fili del maglione da cucire per compito, la terra da arare presentata come “laboratorio” e le violenze dei più grandi. La vergogna ha modellato la loro vita, ha impedito loro di munirsi di autostima, ha ostacolato le loro relazioni. Li ha portati a provare odio verso se stessi creando crisi nelle loro menti. Traumi indelebili sono rimasti impressi nella loro memoria portandoli a riprodurre, da adulti, sui loro cari, ciò che davvero la scuola aveva insegnato loro. La sensazione degli arti intorpiditi dopo aver passato le ore legati al proprio letto, il sapore della saponetta che erano costretti a ingerire e il dolore provocato dai numerosi aghi conficcati sulla lingua sono solo alcuni dei tremendi ricordi che riaffiorano al calar del buio. Dalle scuole residenziali è stato possibile fuggire, ma non dagli incubi che popolano le loro notti: è impossibile restituire un’infanzia e un’adolescenza che sono state strappate via con la forza.
Si è combattuta una battaglia negli ultimi trent’anni e si continua a lottare. Non per aggiustare qualcosa che si è rotto irrimediabilmente, ma per migliorarsi. Evitare che qualcosa del genere si ripeta, liberare da un orribile ricordo gli indigeniv
E quando pensavo di saperne abbastanza di apartheid, lotta per i diritti dei neri, schiavitù, genocidio degli indigeni da parte dei conquistadores ecco che, arrivata a scuola, mi ritrovo circondata da magliette arancioni e uomini dalla pelle scura e gli occhi a mandorla che cantano canzoni tradizionali battendo il tempo con dei tamburelli. Ogni tanto si interrompono per raccontare degli aneddoti, usano il termine scuole residenziali e ringraziano per la giornata loro dedicatogli.
Una donna racconta di essere stata strappata alla sua famiglia, di avere avuto cinque anni, di non sapere l’inglese, di essere stata punita per aver chiesto a un compagno nella sua lingua nativa cosa l’insegnante avesse appena finito di dire.
Fu così che scoprii che nemmeno il Canada, paese famoso per il suo altruismo, è sato esente da atti di violenza inflitti dalla maggioranza nei confronti della minoranza. Scoprii che il Canada riconosce la presenza di tre gruppi di “aborigeni”: gli inuit, i métis (cioè i meticci) e le Prime Nazioni (cioè gli abitanti nativi della parte più meridionale del paese), tutti e tre coinvolti dal fenomeno delle scuole residenziali. Queste sono il frutto di una serie di leggi approvate nel corso del XIX secolo per evitare che i popoli autoctoni si ribellassero per ottenere l’indipendenza e con lo scopo di “assimilarli” alla cultura occidentale.
E fu così che con l’obbiettivo di estirpare sul nascere le erbacce dal giardino vennero create le scuole residenziali dove i nativi americani subirono ogni sorta di violenza: il primo giorno erano privati dei loro capelli e dei loro indumenti; il secondo del loro nome e della loro lingua; il terzo della propria cultura e tradizioni; il quarto sapevano che, una volta usciti, non sarebbero più stati gli stessi.
Furono costretti ad annullare se stessi, chi erano, ciò che rappresentavano. Cancellare la propria identità, nome, religione, cultura, lingua. Un nuovo nome inglese era pronto per loro, così come un’uniforme dal taglio europeo. Nelle scuole, gestite in parte dalle varie chiese del paese, dovevano abbandonare la religione e la lingua nativa in favore del cristianesimo e dell’inglese. Lasciato per sempre il cancello arrugginito della scuola, guardavano le loro tasche vuote chiedendosi se fosse l’unica parte ad essere priva di contenuto, le tasche. Lanciavano un’occhiata alla strada domandandosi se ce ne fosse una anche per loro, se li aspettasse una meta, da qualche parte. Viaggiavano con la mente affollata di dubbi e offuscata dai ricordi. Si ritrovavano a guardarsi attorno senza più riconoscersi fra nessuno di chi vedevano per strada, non fra i bianchi, non fra gli altri indiani, sentendosi estranei nella loro stessa casa. Il tentativo di ricostruire la propria vita falliva spesso miseramente perché l’istruzione ricevuta era pessima e gli insegnanti non qualificati. Si ritrovavano marchiati a vita. Sviluppavano malattie e disturbi mentali. Fra i corridoi sovraffollati, sui letti freddi e scomodi nelle grandi camerate e nelle aule stipate di ragazzi, circolavano epidemie come la tubercolosi che, quasi egoisticamente, li strappavano alla vita.
Se la morte non li scopriva intenti a fuggire nel gelo della notte, allora prepotenza, abusi e violenza li aspettavano al risveglio. Molti non potevano vedere i genitori per anni. La solitudine, la nostalgia, la sofferenza che a lungo li avevano attanagliati in quelle scuole sono continuate nei loro incubi nonostante il passare del tempo.
E lì, soli, nelle zone più fredde e selvagge del Canada, circondati da enormi e spettacolari foreste di pini, accerchiati da puma e orsi, l’unica cosa che davvero impararono fu la vergogna. Questa s’insinuava fra i gessetti sulla lavagna, i fili del maglione da cucire per compito, la terra da arare presentata come “laboratorio” e le violenze dei più grandi. La vergogna ha modellato la loro vita, ha impedito loro di munirsi di autostima, ha ostacolato le loro relazioni. Li ha portati a provare odio verso se stessi creando crisi nelle loro menti. Traumi indelebili sono rimasti impressi nella loro memoria portandoli a riprodurre, da adulti, sui loro cari, ciò che davvero la scuola aveva insegnato loro. La sensazione degli arti intorpiditi dopo aver passato le ore legati al proprio letto, il sapore della saponetta che erano costretti a ingerire e il dolore provocato dai numerosi aghi conficcati sulla lingua sono solo alcuni dei tremendi ricordi che riaffiorano al calar del buio. Dalle scuole residenziali è stato possibile fuggire, ma non dagli incubi che popolano le loro notti: è impossibile restituire un’infanzia e un’adolescenza che sono state strappate via con la forza.
Si è combattuta una battaglia negli ultimi trent’anni e si continua a lottare. Non per aggiustare qualcosa che si è rotto irrimediabilmente, ma per migliorarsi. Evitare che qualcosa del genere si ripeta, liberare da un orribile ricordo gli indigeni, che ora possono uscire di casa e respirare un’aria diversa e vedere con una luce nuova ciò che di nuovo la società sta offrendo loro: l’uguaglianza.
Debora Audrito (4B) – Corrispondente dal Canada