Esistono tanti tipi di storie. Ci sono le storie belle. Ci sono le storie felici. Ci sono le storie a lieto fine. Ci sono le storie che sanno intrattenere e le storie che sanno divertire. Ci sono le storie con una morale. Eppure queste sono solo una piccola parte. Perché poi ci sono le storie tristi, quelle che fanno riflettere. Ci sono quelle raccontate per insegnare e quelle raccontate per non dimenticare. Ci sono le storie che sanno coinvolgere. Ci sono le storie che non avranno mai una fine.
E, soprattutto, ci sono le storie che fanno tutt’oggi rabbrividire. E questo è il caso della storia degli Aborigeni in Australia. Ma iniziamo da dove tutto è iniziato. A partire dal 18esimo secolo i coloni inglesi iniziarono ad insediarsi in quel lontano paese oggi chiamato “Australia”. Uno dei primi ad arrivare fu il capitano James Cook. Gli era stato ordinato di prendere possesso di quella lontana terra affinché l’Inghilterra potesse poi fondarvi le sue colonie. Gli era stato detto di essere “amichevole” con la popolazione indigena locale. Inizialmente tutto sembrò andare bene. Inizialmente. Poi la situazione peggiorò. L’incontro con quella nuova cultura provocò un certo interesse da parte degli Indigeni. Gli inglesi avevano mostrato loro un modo di vivere completamente diverso. E non solo per le strutture in cui abitavano. Gli inglesi avevano portato un diverso tipo di alimentazione. Un’alimentazione che per certi aspetti piacque agli Aborigeni. Stessa alimentazione per cui, tuttavia, molti di essi si ammalarono. E morirono. I colonizzatori si erano impossessati della loro terra, della loro cultura, della loro vita. Si erano impossessati di quella terra sostenendo che non appartenesse a nessuno. “Terra nullius”. Così era stata definita. La situazione peggiorò ancora. Iniziarono i primi scontri e con essi i primi massacri. Massacri compiuti per “punizione”. Massacri compiuti da persone che consideravano gli Aborigeni come degli animali. Massacri compiuti per il piacere di cacciare. Massacri spesso compiuti anche dalla polizia. Nel “the Encyclopedia of Aboriginal Australia” il numero di persone uccise nel nord dell’Australia tra il 1860 e il 1930 è stato stimato a 10000. Si arrivò, infine, anche al peggio del peggio. Nel 1909 venne emanato il “Aborigines Protection Act”. Questo fornì alle autorità la licenza di occuparsi del mantenimento e dell’educazione dei bambini aborigeni. Il governo sosteneva che il modo migliore per far sì che quest’ultimi si assimilassero con la società europea fosse quello di rimuoverli dalle loro famiglie e di crescerli in particolari istituzioni o famiglie adottive. Luoghi in cui, tuttavia, erano spesso trattati con disumanità. Venivano privati dei loro nomi e del diritto di vedere la propria famiglia. Gli veniva proibito di parlare la propria lingua. I maschi erano destinati a lavorare la terra ed ad usare macchinari pesanti. Le femmine divenivano serve domestiche. Furono riportati anche casi di abusi sessuali.
Si arrivò poi alla Seconda Guerra Mondiale. Alcuni Aborigeni si rifiutarono di combattere per un paese governato solo negli interessi dei “bianchi”. In più di 3000, invece, sperarono che, arruolandosi, avrebbero guadagnato qualche diritto da cittadini. Non fu così. Soltanto nel 1949, con il “Nationality and Citizenship Act” essi divennero, per legge, cittadini australiani. Questo, tuttavia, non cambiò di molto la situazione. Con il passare degli anni iniziarono le prime proteste e con esse i primi cambiamenti. Il diritto di voto, di sposarsi, di crescere i propri figli, di muoversi liberamente e di consumare alcool dipendeva dallo stato in cui si viveva. Iniziarono poi ad avere i primi rappresentanti e difensori in politica. Guadagnarono anche alcuni diritti riguardanti il possedimento di terre.
E oggi? Oggi qualcuno sostiene che la situazione stia migliorando. Qualcun altro addirittura sostiene che essa sia già migliorata. E’ davvero così? Si presupponga che con “oggi” si intendono gli ultimi vent’anni. Anni a noi più vicini. Anni in cui noi siamo i protagonisti. Che cosa è stato fatto? Che cosa stiamo facendo? Gli uomini del passato vengono accusati di non aver portato rispetto nei confronti di una terra. Di un popolo. Di una cultura. Eppure oggi c’è ancora chi si diverte a scalare e rovinare l’Uluru. Monte per loro sacro. Un po’ come se qualcuno si arrampicasse su San Pietro. Non si tratta di nuovo di rispetto? Oggi le guide turistiche si raccomandano di trattare gli Aborigeni “come tutti gli altri”. Si può davvero parlare di un miglioramento se si sente ancora il bisogno di ricordare una cosa del genere? Ogni anno vengono riportati casi di morte di Aborigeni mentre si trovano in custodia di autorità e polizia. Tra il 1990 e il 2004 il numero è stato stimato a 80. Si tratta di morte causata da maltrattamenti e azioni disumane. Recentemente si è anche parlato di abusi compiuti nei confronti di giovani detenuti. Ne è un esempio il carcere di Don Dale, a Darwin. Sono state pubblicate immagini e registrazioni risalenti al 2014/2015 di ragazzi ammanettati ad una sedia, incappucciati e intossicati con gas lacrimogeni. Cosa rende tutto questo ancora più sconcertante? Il fatto che il problema non sia stato affrontato correttamente. Anzi, per certi aspetti, non è stato del tutto affrontato. Molti Australiani hanno fatto finta di non sentire e di non vedere. In pochi sono rimasti davvero scioccati. Le prime scuse officiali per ciò che è stato fatto nel passato sono arrivate da parte del ministro Kevin Rudd nel 2008. 2008. Prima di esse, la parola “sorry” non era mai stata pronunciata. Nel 1999 il primo ministro Howard si era rifiutato di fornire delle scuse officiali. Egli sosteneva che gli Australiani di oggi non dovessero “accettare di essere accusati o colpevoli” di azioni del passato “sulle quali non avevano avuto nessun controllo”.
Il punto è che oggi tentiamo di persuaderci che la situazione sia davvero cambiata. In realtà non è così. Possono essere cambiati i metodi. Può essere cambiato il contesto. Di sicuro non la situazione. La verità è che l’unica differenza tra l’oggi e il passato è che adesso siamo noi i responsabili. Adesso il controllo ce l’abbiamo eccome. E non abbiamo fatto nulla di diverso. Si dice che dagli errori si impari. Ancora una volta non è questo il caso.
Elena Parodi (4B) – corrispondente dall’Australia