Definirlo un capolavoro, anche senza essere rinomati critici cinematografici, credo sia alla portata di tutti. Qualcuno diceva che davanti alla vera bellezza non si può far a meno di inchinarsi e sebbene io sia una delle persone convinte della completa relatività di ogni virtù, questo è uno dei casi in cui la mia convinzione viene a mancare. Eccomi quindi intenta a cercare di riassumere in poche righe qualità infinite e universi di sentimenti sprigionati tutti assieme e con celestiale abilità da Fritz Lang in circa due ore di armonia tra luci e suoni, poiché definire quest’opera “film” sembrerebbe una sorta di strano insulto atto ad etichettare e ad inserire in un genere, riducendo così il valore reale.
D’accordo, sto delirando. Il punto è che in teoria la recensione è finita qui. Non sono di certo un’intenditrice e non amo gonfiare le frasi con parole tecniche ed ampollose quando non mi considero in grado di farlo.
Il punto è che a questo punto, a parte il consiglio di precipitarsi davanti ad uno schermo per guardare il film di cui cerco maldestramente di parlare, ogni cosa possa provare a dare sarebbe solo un piccolo rametto nei confronti di una foresta intera.
Comunque oramai ho cominciato e lasciare il tutto così, privo di capo e coda, sarebbe forse un insulto ancora peggiore rispetto ad un magro e cedevole tentativo di scrivere qualcosa di utile.
Quindi, giusto per restare in tema, riavvolgiamo il nastro e andiamo per ordine.
Era il 1931 quando in Germania il grande regista Fritz Lang si cimentò nel suo primo film sonoro, lasciando quindi un genere, quello muto, nel quale si era rivelato un maestro. Uscì nelle sale tedesche, dopo una trepidante attesa, il film (mi accorgo ora di non averne neppure ancora citato il titolo) M, maldestramente cambiato in italiano in M, il mostro di Duesseldorf, anche se della città Duesseldorf per tutto il film non si vede nemmeno un tratto.
La trama, in breve, è apparentemente semplice: un maniaco omicida terrorizza la città violentando e uccidendo diverse bambine, dopo averle attirate attraverso esche fatte di dolciumi e belle parole. La polizia brancola nel buio e comincia a rastrellare la città senza alcun metodo, perdendo la fiducia dei cittadini. I capi della malavita, stanchi di questi rastrellamenti e colpiti dalla violenza dell’assassino ancora in libertà, si uniscono all’ordine dei mendicanti per compiere una giustizia privata, con il favore e l’aiuto degli onesti abitanti tedeschi, che temono per la vita dei propri figli e che vogliono una crudele vendetta.
Una sorta di poliziesco, quindi. Nulla di speciale. Piuttosto simile a quelli che ogni giorno la televisione ci propina.
Esattamente ciò che avevo pensato io prima di guardare il film, consapevole solo della scarsa trama trovata sul web e un poco speranzosa visto il nome del regista. La delusione è l’unica sensazione che non ho provato quando, due ore dopo, i titoli di coda hanno accompagnato la fine del film.
Ciò a cui si assiste, in realtà, è una sorta di doppio ribaltamento delle parti: all’inizio del film è chiaro come il sole quanto l’omicida, Beckert (interpretato da un magnifico Peter Lorre), sia il cattivo da odiare e detestare e quanto gli agenti di polizia e i vari commissari siano i buoni, gli eroi, quelli per cui parteggiare. Eppure, gli eroi non sono forse tanto “super”: falliscono, non trovano tracce, si lasciano sfuggire le occasioni migliori e non possono evitare altri stupri e rapimenti. Cominciano poi, nella disperazione, a muoversi quasi a caso, cosa che provoca nello spettatore una forte irritazione e un vago senso di malessere nel vedere il fallimento di una mal organizzata giustizia. Ma ecco che, all’improvviso, la soluzione alla nostra tristezza ci viene offerta su di un piatto d’argento: i capi della malavita, crudeli e malvagi ma dotati di una forte moralità per quanto riguarda delle povere bambine innocenti, si proclamano i salvatori della situazione. E’ il primo ribaltamento, tanto che per una buona metà del film lo spettatore farà il tifo per boss mafiosi e serial killer, per ladri patentati e ubriaconi. Ma il ribaltamento è tanto sottile ed inevitabile che quasi non si nota: mancava un ruolo, quello del “buono”, e loro, seppure criminali, lo hanno incarnato. Pazienza i precedenti, pazienza la criminalità: davanti allo stupro di bambine indifese cadono tutte le protezioni e tutti gli schemi e anche il più spietato dei criminali può divenire il nostro eroe.
Il film procede con un ritmo sempre crescente: in poche notti, i malviventi fanno quello che la polizia non ha fatto in svariate settimane e chiudono il killer in un cerchio sempre più stretto. Lo circondano, lo sconfiggono, lo catturano. Lo portano in un edificio abbandonato e lo lasciano all’unica giuria che tutti, in quel momento, vorremmo per lui: il popolo. E non è quel popolo buono delle feste o quel popolo sentimentale che siamo abituati a conoscere: è il popolo arrabbiato, la folla infuriata, l’insieme di madri e di padri che chiedono un’atroce vendetta. Sono i cittadini colpiti dagli orrendi delitti, sono tutti coloro che, colpiti “di pancia” dallo stupro di quelle povere bambine, non vogliono altra pena che quella di morte.
Siamo alla conclusione, la tensione è alle stelle, lo spettatore è dentro al film insieme a quella povera gente distrutta dall’orribile killer spietato e malvagio e nessuno si tirerà indietro per lanciare la prima pietra.
E poi, quando l’elastico è teso al massimo e sta per spezzarsi, quando il digrignare di denti dei nostri eroi si fa più forte, quando finalmente l’assassino è pronto per essere ucciso, il secondo ribaltamento.
Non ci sono forse parole a sufficienza in tutti i dizionari del mondo per descrivere come la coppia Lang-Lorre riesca a ribaltare il nostro punto di vista, i nostri sentimenti, le nostre situazioni, rovesciando completamente il nostro “io”. È il primo vero discorso del “mostro”. È l’unica scena in cui diviene lui il protagonista.
È la scena in cui l’elastico teso al massimo torna a contorcersi e la spinta di rabbia che ci aveva fatto alzare dalla sedia ci fa tornare accucciati, più piccoli e stupidi di prima. Quello che Lang riesce a fare non è semplicemente dare un’aria di relativismo alle azioni umane: ci mette di fronte al nostro più terribile nemico, noi stessi, quella parte dell’essere umano ombrosa e maledetta, fatta di fiamme, rabbia e crudeltà. Ci dimostra quanto anche i sentimenti più puri possano essere orrendi. Ci dimostra che i veri mostri, alla fine, siamo noi.
Ogni altra sillaba sarebbe vana. Andate a comprare il dvd, noleggiatelo o chiedetelo in prestito a qualcuno. In giro c’è una versione italiana abbastanza imbarazzante che taglia alcune scene in modo orrendo. Sebbene il consiglio sia quello di guardarsi l’intero film in originale, capisco che per qualcuno il tedesco possa essere un problema (non solo per qualcuno) ma ultimamente è uscito il film interamente doppiato che conserva le scene teoricamente tagliate nella lingua originale con un saggio uso dei sottotitoli. In qualche modo, guardate questo film. Vi lascerà in bocca un sentimento amaro, una voglia di guardarvi allo specchio e chiedervi chi siate realmente che poche altre opere sanno fornire.
È il primo esperimento sonoro di Lang, è vero, ma direi che è riuscito splendidamente. Sono storiche le scene dell’urlo della madre di una delle bambine uccise che rieccheggia per i luoghi vuoti un tempo frequentati dalla figlia e l’inseguimento dell’assassino da parte della malavita, verso la fine. Stupefacenti e fondamentali per la storia del cinema l’uso del sonoro (il fischettio che contraddistingue Beckert, eseguito dallo stesso Lang) e delle inquadrature, ma è da ricordare anche la scena che in realtà procura il titolo al film, dove uno dei malviventi contrassegna il giubbotto di Beckert con una “M” bianca.
Potrei parlare per ore dell’uso delle scene, della musica, delle inquadrature, dell’abilità del regista e degli attori, delle influenze che M ha generato nella storia del cinema, ma perderei il mio tempo e preferisco lasciare una critica tecnica a qualcuno che se ne intenda più di me.
In fondo, l’unica vera critica la si può trovare dopo aver visto il film. Quindi non perdete tempo, saranno due delle ore meglio spese della vostra vita.
Carlotta Pavese (4D)