Un Natale sperduto

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TANCA - foto articoloEra una notte gelida. Ero da sola, in un bosco, in piena notte,  d’inverno e, come se non bastasse, era pure la vigilia di Natale. Mi trascinavo in avanti lungo un percorso insistente, immaginato nella mia mente; iniziavo ad accettare il fatto che quei boschi sarebbero stati l’ultima cosa che avrei visto in questa vita. Il silenzio attorno a me era enfatizzato dall’assenza di movimento. Oltre a morire nel mezzo del nulla, sarei morta da sola. Pensai alle ultime parole che mio fratello mi aveva sentito pronunciare: “Esco per due minuti, solo per prendere un po’ d’aria.” Sarebbe stato l’ultimo ad avermi vista. Pensai alla mia famiglia: magari si erano del tutto scordati della mia esistenza, immersi nei festeggiamenti natalizi. Pensai a come si sarebbero sentiti alla notizia che ero stata trovata morta, da sola, per il freddo. 

Mi voltai. I miei passi erano già stati inghiottiti dal pesante mantello di neve bianca, puro, innocente. Ogni mio respiro si congelava nell’aria, il freddo mi penetrava le ossa, il corpo. L’oscurità mi avvolgeva come una coperta di morte; volevo fermarmi, spendere quei pochi minuti a me rimasti per vivere questa vita, per apprezzarla, per adorarla, per salutare questo mondo bellissimo. Ma non ci riuscivo, il mio corpo per qualche motivo non mi permetteva di fermarmi, come se, nonostante la mia mente avesse già accettato il mio destino, il mio corpo non lo volesse accettare.

Improvvisamente, un bagliore debole tra gli alberi catturò la mia attenzione. Mi sforzai di muovermi in quella direzione, più per istinto che per ragione, ma ogni passo era una lotta contro il gelo che ormai mi stava avvolgendo.

Quando finalmente arrivai a quello che sembrava un rifugio, la speranza mi colse di sorpresa. Una piccola costruzione in legno. Mi fiondai al suo interno. Non appena la porta fu chiusa, avvertii dietro di me un suono delicato, poco distinguibile. Girai la testa per guardare fuori da una piccola finestra; cercavo la fonte del rumore, e, lì tra gli alberi, lo vidi.

Un piccolo essere, che faticava a portare un sacco enorme, mentre la campanelle tintinnavano a ogni suo passo. La sua figura, piccola e incerta, sembrava quasi stordita. Non so perché, uscii e lo avvicinai, dimenticando il freddo.

“Ehi!”, chiamai – il mio respiro ancora visibile nell’aria gelata. L’essere si voltò verso di me, i suoi occhi brillavano di una luce inquietante. Era piccolo, no, non piccolo, direi che la sua altezza non superava il mio busto. La pelle era pallida, aveva delle orecchie appuntite che spiccavano sotto un grande cappello cadente sulle sue spalle verdi. Il suo vestito era verde e pulito, ma quel sacco che portava sembrava quasi troppo grande per lui. Sembrava quasi un elfo. Ma non poteva essere… un elfo?

“Posso aiutarti?” chiesi, sentendo un impulso strano a non lasciarlo lì da solo.

Il piccolo elfo fece un passo indietro. Poi, con voce roca e affaticata, rispose: “Non è necessario. Grazie” 

“Non è troppo pesante?” dissi, avvicinandomi. “Posso darti una mano. Dove stai andando?”

Il suo volto si fece scuro per un istante, e la campanella fece un altro tintinnio. Poi, con uno sforzo visibile, fece un passo verso di me. “Sto portando questo… a qualcuno,” disse, guardandomi con una punta di diffidenza.

“Sei sicuro?” ripetei, sforzando un sorriso sbilenco.

Con aria rassegnata l’elfo disse: “Va bene, ma dobbiamo fare in fretta.” Buttò a terra il sacco e si mise a camminare con passo veloce. 

Raccolsi il sacco e avanzai, mantenendo il suo passo a breve distanza. Il freddo che avevo prima venne subito sostituito da una strana speranza nel mio cuore.

Lo seguii senza esitazione. Arrivammo finalmente a una piccola apertura negli alberi, dove una slitta stava già aspettando, con delle renne che sfrecciavano in cielo, sollevandosi nell’aria come se non avessero alcun peso. Mi fermai, sbalordita, e l’elfo non disse nulla. Ciò che vedevo era un sogno, non poteva essere reale. Stavo aspettando di svegliarmi quando l’elfo, con un gesto della mano, mi fece segno di avvicinarmi. Mi voltai e lo vidi, un uomo grande, robusto, con la pelle rosata e una lunga barba bianca che sembrava brillare alla luce della luna. Indossava un manto rosso, bordato di pelliccia bianca, e il suo sguardo, penetrante e sereno. Era Babbo Natale.

Mi fissò con un sorriso benevolo e, in quel momento, capii che non ero più nel bosco ma in un luogo dove il freddo non faceva paura, dove le luci brillavano nel cielo, in un luogo che solo le leggende osano raccontare.

Isabella Tanca

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