La scrittura dei “Figli della mezzanotte” di Salman Rushdie è impareggiabile, quasi inimitabile. La caratteristica principale della sua narrativa è ricavabile da una frase del narratore stesso: “ Tutto ciò che viene iniziato non viene finito, e tutto ciò che ha una fine non ha un inizio.” Infatti la storia di Saleem e della sua famiglia non ha né capo né coda, ogni particolarità legata alle sue vicende è sempre spunto per una digressione, un approfondimento, che fa dimenticare al lettore la situazione precedente e lo proietta in una dimensione completamente diversa, ribaltando gli scenari per più volte all’interno di un capitolo.
La lettura del testo è impegnativa e faticosa, perché il modo di narrare non è lineare e razionale, ma intricato, ricco di virgole, parentesi, interruzioni, citazioni letterarie, provenienti sia dall’ambiente musulmano, sia da quello indù, sia da quello non religioso, mischiando parole hindi con quelle inglesi, fondendo storia e mito insieme. Si potrebbe definire quest’opera un “crogiolo” di tematiche affrontate e approfondite. La vita di Saleem è sempre legata ad un fatto o un avvenimento della storia indiana degli ultimi cento anni, anzi, è come se esistesse un filo che lega l’India e il ragazzo: ogni avvenimento che capita a uno si ripercuote e si manifesta sull’altro. I capitoli iniziali, relativi alla lotta contro l’invasore inglese precedenti alla Seconda Guerra Mondiale, danno l’immagine di un paese diviso in due: uno unito, pacifico, determinato, pronto all’indipendenza e coeso sotto la guida del Mahatma Gandhi; l’altro scisso, scontroso, violento e distruttivo, caratterizzato da lotte tra musulmani e hindu. Poi, insieme al protagonista, nasce l’indipendenza, che porta all’unità dell’India. Rushdie critica in modo indiretto il presidente Nehru, facendolo apparire come un mentitore, perché nelle dichiarazioni pubbliche parlava di una nazione forte e in costante crescita, ma in verità sono state combattute ben quattro guerre, seminando morti nel vicino e odiato Pakistan e perdendo giovani vite tra le proprie file. Ed è interessante che vengano menzionati questi quattro conflitti, perché la storia scritta nei libri scolastici e non solo non le cita con molta frequenza, anzi sono quasi sconosciute, come se qualcuno le avesse volute oscurare. Nella fase adulta della vita di Saalem si arriva a parlare di Indira Gandhi, che viene dipinta non come un’eroina nazionale o buon politico, come era considerato dagli Indiani e dal resto del mondo, ma come una strega brutta,vecchia e cattiva con smanie di potere, quasi una dittatrice, in quanto ordina di arrestare in nome della sicurezza pubblica i suoi oppositori politici e di chiudere tutte le testate giornalistiche a lei non gradite. L’impressione generale che il testo crea è un senso di disordine e caos presenti nella trama, nel modo di scrivere, persino nelle idee. Ma dopo una profonda riflessione si ha una percezione di calma, di pace interiore, di equilibrio tra le innumerevoli diversità che caratterizzano il libro (stilistiche soprattutto), nel senso che Rushdie parrebbe aver voluto scrivere con raziocinio in questo modo per dare idea di quella che è la complessità caotica della sua patria. E’ rappresentata la stessa confusione che si trova in una qualsiasi strada indiana, di cui un occidentale non può capire il motivo ma che dagli Indiani è accettata e vissuta con normalità e serenità dell’anima. Di tutti gli avvenimenti raccontati all’interno del romanzo, il narratore si astiene dal dirci cosa è giusto e cosa è sbagliato, quindi si ha l’impressione che tutto sia relativo, perché è a seconda dei punti di vista che la realtà prende forma e spiegazione. Ed ecco chiarito per quale ragione in India riescono a convivere religioni, etnie e culture diverse, proprio perché non esiste un solo ed unico punto di vista per guardare il mondo, ma tanti occhi che plasmano le situazioni a propria immagine.
Simone Ambrisi (2B)