Lunedì 19 gennaio 2009: una minoranza palestinese che vive a Torino ha presidiato, insieme a sostenitori stranieri ed italiani, Piazza Palazzo di Città. I palestinesi presenti hanno descritto in modo assolutamente pacifico, nonostante quotidiani nazionali quali “La Stampa” non convengano, la situazione che da decenni sono costretti a vivere, dando un’interpretazione sicuramente soggettiva della questione, ma che dimostra fondamenti storici ed ideologici ben chiari a chi ha deciso di prender parte alla manifestazione.
Tra i presenti mi aggiravo anche io, che non ho potuto fare a meno di prender nota di alcune cifre sulle quali s’è discusso: è inammissibile che 1310 anime vengano brutalmente spedite nell’aldilà nell’arco di nemmeno venticinque giorni, vittime composte perlopiù da anziani e bambini, in quanto l’esercito israeliano ha deciso di non risparmiare dai bombardamenti nemmeno scuole e ospizi, dove 5500 persone sono rimaste ferite. Mi lascia anche perplesso il fatto che vengano presi di mira persino i volontari dell’Onu impedendo così le forniture di cibo e di materie prime agli abitanti della striscia di Gaza. Ed a chiamarli abitanti si è troppo poco sinceri: sono prigionieri spesso innocenti, rinchiusi in una grande prigione delimitata da mura di cemento alte e spesse, decorate qua e là da qualche graffito, opera di writers coraggiosi che hanno deciso di esprimere, per mezzo dell’arte, il loro sostegno nei loro confronti. Si tratta infatti di esseri umani “a cui non scorre l’acqua nelle vene”, di individui “fatti di carne e sangue”, come ripetono spesso nelle manifestazioni che hanno la possibilità di organizzare a Torino.
Tra i manifestanti intenti a danzare a ritmo di musiche palestinesi che intonano canti di pace, ho avuto modo di conoscere Kutaiba Junis, esponente dell’associazione Free Palestine della nostra città. Tento di intrattenere una conversazione con lui ma frettolosamente si scusa e si congeda per recarsi, insieme ad alcuni altri, all’interno del municipio per proporre le richieste dei manifestanti. L’intento era proprio quello di coinvolgere il Comune: si sperava in una presa di posizione netta da parte del sindaco Chiamparino, nel porre la bandiera italiana che sventola sulla facciata del palazzo a mezz’asta in segno di lutto, di aggiungere la bandiera Palestinese a fianco di quella dell’Unione Europea, dell’Italia e del Comune che colorano la stessa facciata e, infine, di interrompere quel processo che sta portando alla creazione di una nuova camera di commercio tra la nostra città ed Israele, nato dal fatto che la fabbrica israeliana di telefoni cellulari Telit sarà probabilmente il futuro acquirente della Motorola. Notizia sorprendente per molti quest’ultima, dato che l’incontro avvenuto pochi giorni or sono proprio qui a Torino, al quale han preso parte imprenditori italiani, israeliani ed arabi, non era stato pubblicizzato in modo così eclatante, come si è soliti fare quando un’azienda italiana viene salvata da qualche compagnia straniera in un periodo di crisi come questo.
Ascolto Bossbeadriss, nome che mi spiega avere il significato di “padre del leone”, parlare in modo deciso: mi dice che la questione consta principalmente di interessi economici e che “gli israeliani hanno costruito il loro Stato prettamente sui soldi. Non si parla né di religione né di spazio, perché di spazio ce n’è a sufficienza per tutti. Gli israeliani hanno agito con la forza e solo i deboli agiscono con la forza” mi dice, affermazione contestabile visto che parliamo di uno degli Stati più piccoli del mondo che, però, possiede il più grande esercito di terra del globo. Mi racconta poi di sua moglie, che è siciliana e cattolica convinta e che a lui tutto questo non interessa, perché ognuno è libero di pensare ciò che meglio crede. “In Gesù e in Abramo”, segue energicamente “ci crediamo anche noi musulmani e, per quanto mi riguarda, siamo tutti fratelli. Noi chiamiamo Allah colui che voi chiamate Dio, perché quest’entità ha creato diversità affinché l’uomo potesse esprimersi in modo diverso. La menzogna brucia immediatamente: pensa ai culti primitivi! I fondamenti della Bibbia permangono dopo 2009 anni e quelli del Corano dopo più di 1400: non possono essere falsi. In fondo crediamo tutti nello stesso Dio, no?” mi domanda infine ma, per fortuna, non devo giustificare il mio silenzio con l’ateismo: nello stesso istante escono infatti i rappresentanti dal Palazzo del Municipio che, a malincuore, informano i dimostranti delle decisioni prese dalle autorità: “le risposte sono state deboli” affermano, “ci hanno risposto che il Comune si è già espresso indicendo un minuto di silenzio. Siamo una città che sceglie il silenzio politico, che preferisce nascondersi dietro ai problemi burocratici”. E mentre le musiche dei Nass Ghiwan continuano a fungere da sottofondo, ci raccontano infine che alcuni politici, nel corso di un consiglio comunale, hanno deciso di alzarsi ed andarsene per dimostrare il loro dissenso nei confronti di questa manifestazione, un atteggiamento che non può essere giustificato e che dimostra soltanto scarsa sicurezza: chi riesce a costruirsi tesi ben strutturate non si rifiuta di esporle ma, anzi, cerca proprio di renderle note e di convincere l’opposizione del contrario. Proprio per questo ho deciso di scrivere questo articolo, senza vergognarmi di esprimere la mia solidarietà nei confronti dei civili di Gaza. Il mio intento non è quello di screditare gli abitanti di Israele, ma non posso non immedesimarmi in quei padri che hanno perso i loro figli, in quei bambini che non vedranno mai più i loro fratelli o i loro cugini, in quei nonni che non possono sperare in un ricovero immediato dei loro nipoti feriti: ogni individuo ha il diritto di vivere, di vivere in modo sicuro e di essere curato.
Sotto la neve e pervaso dall’atmosfera arabesca che caratterizzava la piazza in quel momento, mi sono reso conto che io sto dalla parte di Gaza perché sono un uomo, un individuo che vede uomini e donne che, proprio a Gaza, patiscono sotto i bombardamenti stretti nell’assedio. Il loro terrore è terrore di uomini e di donne, così come il loro sgomento. Il loro terrore e il loro sgomento sono anche i miei. E’ in nome del mio essere uomo che sto dalla parte di Gaza.
Sto dalla parte di Gaza perché gli uomini e le donne di Gaza resistono, difendono ostinati se stessi e la propria umanità da chi li vorrebbe vittime mute dei giochi di geopolitica, schiavi mansueti nell’ordine del mondo. E’ invocando quest’ostinazione che sto dalla parte di Gaza. Sto dalla parte di Gaza perché coloro che si arricchiscono sulla tragedia degli uomini e delle donne di Gaza sono gli stessi che si arricchiscono sulle spalle di tutti. Chi produce i missili che li colpiscono, i cingolati che li schiacciano, persino le divise che insultano gli uomini e le donne di Gaza sono gli stessi che qui ci fanno morire nelle fabbriche, nei cantieri o in mezzo alla strada. E’ sventolando questa consapevolezza come una bandiera che sto dalla parte di Gaza.
Sto dalla parte di Gaza perché gli uomini e le donne di Gaza sono chiusi in un’enorme gabbia e vivono già ora quello che sembra essere il domani comune del mondo: fuori il fresco dei giardini e il benessere tranquillo per i padroni, dentro la miseria, la calca e la violenza per gli sfruttati. In mezzo, il filo spinato. E’ per sfuggire a questo futuro che sto dalla parte di Gaza. Sto dalla parte di Gaza circondata e bombardata. Sto dalla parte di Gaza che resiste: sono anch’io un ribelle di Porta Palazzo!
Stefano Castello (5D)