Una lettera

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Scrivo questa lettera nella speranza che, chiunque tu sia, possa oggi vedere il mondo diverso da come ho dovuto viverlo io. Ho sempre pensato che, un giorno, avrei dovuto lasciare ai posteri un segno della mia esistenza, perché il mio nome venga poi ricordato per millenni. Ma mai avrei pensato di dover scrivere poche righe a qualcuno che non conosco né conoscerò. Mai avrei pensato di dovergli scrivere così. Quando l’inchiostro nero avrà finito di posarsi su questo foglio ingiallito, non sarà cambiato nulla. In questo momento, uomini dalle forti braccia trasportano lastre grigie da fissare a terra, perché ruote robuste possano calpestarle senza rovinare il suolo. Si crea una strada, se ne va un pezzo di terra. Il fango che dava tanto fastidio nelle notti piovose, ora sarà solo più un ricordo, come le secche radici che intralciano il passaggio. Chi sono io per fermare ciò? Non saranno il fango né i rami ad annodare in me la nostalgia del passato. E sebbene presto penserò allo scricchiolare delle foglie secche sotto i miei stivali, capirò ch’è necessario l’adattarsi, perché l’umanità possa procedere diritta, senza volgersi indietro. Ma quanto a lungo riuscirà a non perdere la strada? L’innovazione, ciò che ci rende tanto sicuri di noi stessi man mano che s’accumulano i risultati. Ma per quanto questa moneta avrà il suo valore? Non temo la strada costruita sull’erba. Temo che l’uomo possa rendersi conto dell’esistenza dell’erba solo quando la strada sarà costruita. Temo che l’uomo tenga tanto al risultato, da trascinare se stesso verso l’oblio, un oblio fatto di tutto tranne che di umanità.

Roma, secolo IV d.C.

Carlotta Pavese (2D)

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