Urla. Parole strappate a gole stanche. E nel caos, risuona in sottofondo la conversazione di un uomo ad una radio locale. È il 30 Gennaio, il CIE di Torino subisce una significativa rivolta dei prigionieri. La disperazione di uomini in cerca di libertà li porta a scalare ogni singolo mattone fino a stendersi in piedi sui tetti. Per scappare da là spiegando le ali al vento. Impossibile perché non reale come lo è la possibilità per coloro che lì sono costretti a stare, di ricominciare a vivere. All’improvviso la voce dell’uomo non risuona più al telefono, viene però sostituita da urla di dolore e rumori di oggetti che percuotono altri oggetti. O persone.
Tante le informazioni e le immagini riguardanti la vita in un carcere di espulsione. Grazie a gruppi sempre più attivi per la trasmissione di queste informazioni, con il tempo il pubblico si sta sensibilizzando sull’argomento. Una delle associazioni che si occupano proprio di questo è OndaUrbana, la quale ha tenuto un incontro nel nostro liceo proprio il 6 Maggio di quest’anno. Attraverso parti recitate e riflessioni accompagnate da chiarimenti e discussioni, abbiamo fatto diventare nostro un argomento che prima non ci toccava. Lo abbiamo guardato negli occhi, senza distogliere lo sguardo, e abbiamo così osservato una parte di mondo diversa da quella che tutti i giorni incontriamo. I CIE (Centri di Identificazione e Espulsione) sono stati creati per portare all’interno tutti coloro senza documenti e quindi senza identità in Italia che vengono ‘catturati’. Vengono anche chiamati centri di attesa perché luoghi in cui uomini, i cosiddetti clandestini, attendono di essere rimandati nel proprio paese. Un paese che la maggior parte di loro non rivedrà mai. Sono stati istituiti in base a quanto disposto nell’articolo 12 della legge Turco-Napolitano leggermente modificata poi in seguito diventando legge Bossi-Fini. Le sedi in Italia sono molte, tra cui una a Torino; i posti totali disponibili circa 1901.
Nell’incontro a scuola con OndaUrbana, esponendo i vari pensieri, è sorta la domanda su quale fosse inizialmente lo scopo dei centri di espulsione e la risposta è arrivata nel momento stesso in cui quelle parole sono uscite dalla bocca: un centro creato per l’espulsione di individui, in questo caso di nazionalità non italiana, è contro qualsiasi valore umanitario. Gli stessi organizzatori di questo incontro paragonano l’idealizzazione dei CIE e il maltrattamento di coloro che vivono lì ai lager. Uno dei rappresentanti dell’OndaUrbana dice: “Nei CIE non ci sono i forni crematori, ma, per il resto, possono essere paragonati al lager”. Perché lager? Molto semplice, tutti coloro che vengono riconosciuti fisicamente come extracomunitari possono, che abbiano o no i documenti, essere portati nei CIE. Una volta entrati iniziano una serie di procedure per le quali il tuo corpo diventa come un animale da macello. Il cibo è di scarsa qualità e testimoni documentano il ritrovamento di insetti nelle pietanze a loro servite. La completa libertà di infierire sui corpi lì vaganti rende ogni piccola azione una scusa per sferrare la propria forza. La loro autorità permette agli ufficiali di somministrare farmaci e psicofarmaci in quantità illimitata. Significa perciò che chiunque può avere quanto vuole di cosa vuole (uno dei modi per provare a superare la vita all’interno del centro). Questo accade non perché si cerca di aiutare ma per manipolare la mente di ognuno di loro e farli in qualche modo sottomettere. Tuttavia, è difficile dire se è più grave ciò che gli ufficiali provocano ai prigionieri o ciò che loro stessi si infliggono. Foto di bocche cucite con il filo per protesta, braccia e petti ricoperti di tagli per la disperazione, corpi senza vita appesi ad una corda. Sì, perché uno dei modi con cui si cerca di scappare da quell’inferno è il suicidio. È a questo punto che si può raccontare la storia di una donna.
Era in coda, in questura, per il rinnovo del permesso di soggiorno, quando, improvvisamente, sente il suo corpo spostarsi contro la sua volontà. Due uomini la trascinano via di forza. Questo è l’ultimo momento che vive libera. Fuori da mura di sicurezza.
L’ultima volta sì, perché tempo neanche due settimane e ha già deciso di impiccarsi.
Sono tante le storie che si possono raccontare, tanti uomini e tante donne portati via dalla loro famiglia. Magari rimandati nel loro paese d’origine quando tutti i parenti e le persone che loro conoscono sono qui, in Italia. Persone come quella donna che i documenti li avevano, il permesso di soggiorno anche, ma ad un tratto perdono il lavoro e si ritrovano senza nulla. La legge italiana infatti stabilisce che se sei straniero e hai un lavoro hai diritto al permesso di soggiorno ma nel momento in cui perdi il lavoro perdi anche ogni diritto a restare.
Sappiamo di ribellioni, di morti, maltrattamenti ma manca ancora qualcosa. È più losco di quanto si pensi. Lo Stato fornisce una somma che varia dai 35 agli 80 euro per persona per tutti coloro che sono nei centri CIE. Questi fondi, che dovrebbero essere utilizzati per le spese di cibo e beni primari di ognuno, vengono in una minima parte utilizzati a tali scopi (si vede infatti dal cibo e da come dormono, ad esempio), il rimanente viene intascato da chi avrebbe la responsabilità di quelle vite.
E’ brutale il comportamento a livello fisico e disgustoso a livello morale. Non si può però cambiare il mondo a parole, e neanche eliminare le ingiustizie che vengono fatte ma nel nostro piccolo ognuno di noi sa cosa può fare per aiutare la comunità. Ognuno può incominciare a trasmettere le informazioni, a discutere e non nascondere i fatti. A non aver paura di schierarsi da una parte piuttosto che un’altra. L’importante è crederci, se si è convinti di ciò che si sostiene tutto è possibile e in futuro magari le cose saranno migliori. Ma bisogna iniziare dal presente ed è così che in qualche modo provo a cominciare, trasmettendo a voi informazioni di cui non tutti siamo a conoscenza.
Elena Cuatto (2H)