Sentirsi soffocare è forse la più brutta sensazione che un uomo possa provare.
Lui lo sapeva bene.
Per questo motivo ha atteso mesi prima di mettersi in mare; prima di trovare il coraggio per salire su quel barcone. Dopo aver osservato le stelle nel cielo, chiudeva gli occhi per cercare riposo. Ogni volta riviveva sempre lo stesso incubo: polmoni in fiamme, sensazione di impotenza, profondo dolore, disperazione. Era la sua peggior paura, la morte più atroce.
Dopo qualche anno, la crisi era diventata insostenibile. Nonostante la presenza dei soldati francesi e dei caschi blu dell’Onu, la situazione nel Mali peggiorava giorno dopo giorno. Dal 2012, il suo Paese era sconvolto dall’estremismo islamico, da attacchi terroristici e guerre. La crescente violenza, i cambiamenti climatici, l’aumento della popolazione giovanile, la mancanza di posti di lavoro e l’urbanizzazione non controllata, rendevano un’impresa trovare anche solo un pezzo di pane.
Arrivati i 12 anni, sua mamma gli chiese di partire. “Non c’è niente qui per te. Solo dolore e sofferenza”. Lui non voleva, non poteva abbandonare sua madre, vedova, con 6 figli piccoli da mantenere. “C’è un futuro per te, un futuro ridente oltre quel mare. Non sarai mai solo. Quando ti mancherà la tua terra e la tua famiglia, guarda il cielo: noi saremo le tue stelle, la tua guida. Ti daremo la forza, la speranza per continuare.” Fu questa frase a convincerlo a partire. Doveva farlo per tutti loro, per portarli via da quell’incubo così reale.
Prima di mettersi in viaggio cucì la sua pagella nella tasca. Gli avevano raccontato che bisognava nascondere le cose più importanti per evitare che qualche ladro le rubasse o qualche trafficante se ne impossessasse. Era il suo tesoro più bello, il suo orgoglio, il suo lascia-passare per l’Europa. Andava molto bene a scuola, era un ragazzo sveglio, aveva imparato a leggere e a scrivere quasi autonomamente. La custodiva con amore e cura: era il suo futuro.
Dopo aver viaggiato per quattromila chilometri fino alla Libia e aver sopportato ogni tipo di sofferenza, usò tutti soldi che sua mamma aveva risparmiato lavorando per mesi per pagare uno scafista. Salì a bordo di un barcone troppo pieno, pieno di uomini con speranze e aspettative. Tutto questo non bastò. La sera del 18 aprile del 2015 le stelle erano luminose nel cielo. Fu uno dei mille a morire annegati.
Un Lui che non ha nemmeno un nome, solo un’età, una nazionalità e una pagella gelosamente custodita. Uno dei tanti immigrati, violenti, criminali, ladri. Uno dei tanti, ma mai una persona. Mai un ragazzo, mai un bambino.
Forse questa morte non è colpa di nessuno. Non è colpa di chi predica odio e violenza per prendere qualche voto, scambiando vite per potere e denaro. Non è colpa di chi condivide messaggi disumani, di chi fa il leone da tastiera giudicando azioni disperate nel caldo della propria casa. Non è colpa di chi considera questo ragazzo inferiore, inutile, “uno dei tanti”. O forse la colpa è di tutti loro, di tutti noi. Forse la colpa è anche nostra, mentre restiamo qui a scrivere senza alzare un dito. Di sicuro lo è.
Era completamente diverso da come aveva sognato. Nessun dolore, nessuna paura. Solo a una cosa pensò il piccolo bambino del Mali prima che le gelide acque del mare si richiudessero sopra di lui: non era colpa sua. No, non era colpa sua. Non era colpa sua se aveva osato, se aveva sfidato il destino, la sorte. Non era colpa sua se aveva sperato.
Un fortissimo senso di impotenza lo pervase. Era tutto così ingiusto. Ne aveva superate così tante, aveva sacrificato così tanto, troppo per un ragazzino della sua età. Pensò a sua mamma che attendeva notizie, al suo fratellino malato. Pensò al padre, morto chissà dove, dimenticato dal mondo. Pensò alla sua pagella cucita in tasca, alla felicità che si meritava di provare, a tutto l’impegno che aveva messo nel poter essere abbastanza bravo, abbastanza degno di poter sedere dietro a un vero banco di scuola, insieme ai suoi nuovi compagni di classe. Pensò che non c’era niente di diverso, di sbagliato, tra lui e un qualsiasi bambino francese, italiano, tedesco. Eppure, lui era lì, a morire senza nome, solo per essere nato nella parte sbagliata del pianeta. Pensò all’infanzia distrutta, al suo futuro rubato. Era tutto così terribilmente e insopportabilmente ingiusto.
Le lacrime salate scappavano con le onde violente. Non c’era posto nemmeno per piangere in quell’inferno sceso in terra. Le stelle, quelle traditrici. Furono l’ultima cosa che vide prima che il nero mare di indifferenza lo inghiottisse.
Elisa Buglione-Ceresa