Un’esperienza in Iraq

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La terza conferenza tenutasi in aula studio mercoledì 10 è cominciata con una presentazione nostra che non è stata delle migliori: infatti l’Iraq, paese in cui opera l’associazione del laureando in scienze politiche Alessandro Ciquera, è stato scambiato con il Libano. Appianato questo piccolo inconveniente iniziale, siamo entrati nel pieno della conferenza con una breve introduzione di Alessandro su di sé e sul paese.

L’Iraq è appena uscito da un conflitto tra i più sanguinosi della storia, un conflitto che negli ultimi tempi non faceva più nemmeno notizia. Il “non fare notizia” è tipico delle problematiche di buona parte del mondo: molte notizie provenienti dall’Africa e, appunto, dal Medio Oriente vengono sistematicamente escluse da telegiornali e quotidiani.

Con quella che dovrebbe essere stata la fine del conflitto però non se ne sono andate le paure che da ormai troppo tempo avvelenano le vite degli iracheni né sono finite le ostilità tra la popolazione e soldati occidentali, giustamente considerati simbolo di distruzione.

Alessandro si è soffermato su come la paura sia parte integrante della vita della gente, di come il gesto quotidiano di andare a lavorare possa diventare pericoloso: «Il padre della famiglia di cui ero ospite era stato avvisato dai terroristi che la sua strada sarebbe stata colpita da un attentato, ma quando gli ho chiesto se pensava di smettere di andare a lavorare, lui mi ha risposto che non se lo poteva permettere, dato che doveva portare a casa i soldi per mandare avanti la famiglia.». Inoltre ci ha fatto notare come l’attentato dei terroristi avrebbe privato la gente di un servizio indispensabile come quello dell’assistenza sanitaria. A rimetterci quindi sarebbe stata la popolazione, mentre lo scopo piuttosto suicida degli attentatori è quello di far fare agli USA una seconda figuraccia mondiale come quella del Vietnam: «Dimostrare al mondo che gli Stati Uniti non sono in grado di tenere il Paese, è per loro più importante di molte vite umane».

Parlando di USA si è immancabilmente venuti alla questione delle truppe americane in Iraq, questione che sebbene non faccia più notizia è sempre attuale. Sul fatto che il regime dittatoriale di Saddam Hussein andasse distrutto e il suo leader processato non ci sono dubbi, ma sorge spontaneo domandarsi se il metodo statunitense di invasione sia stato quello giusto. Una volta di più è stata ricordata la natura puramente petrolifera della guerra: controllare l’Iraq avrebbe significato per gli USA avere la strada spianata verso il Kuwait, piccolo ma ricchissimo staterello confinante.

Per tutto questo tempo i soldati occidentali non hanno rappresentato per la gente comune che una minaccia da cui guardarsi, esattamente come i terroristi che tartassano le famiglie con metodi analoghi a quelli mafiosi. Non c’è da stupirsi quindi se le ostilità tra i militari e la gente già provata dalla guerra siano state numerose in questi anni di conflitto.

Ma anche se la paura fa parte della vita degli iracheni, loro non hanno perso la voglia di cambiare le cose: le elezioni conclusesi tre giorni fa, la cui affluenza alle urne in percentuale è stata maggiore di quella italiana, sono una chiarissima dichiarazione ai terroristi e al mondo che l’Iraq è un paese che la gente sta tentando di ricostruire e a cui si sta tentando di restituire una dignità.

 

Chiara Murgia (1C)

 

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