Ci sono momenti in cui il tempo sembra scorrere velocissimo e un istante dura un’eternità. È più o meno questo che accade allo spettatore seduto al cinema davanti a un film pronto a catturarlo. Lo hanno provato quelli che hanno visto Avatar, l’ultimo exploit di James Cameron, come testimoniato dal record di incassi. Le poche voci discordi che si levano dalla folla di fan vengono ignorate. Tutto nel film lo ha reso adatto al successo: le nuove tecniche usate per il 3D, la visione tridimensionale che aggiunge realismo alle scene senza risultare esagerata, le scenografie spettacolari (la foresta è stata davvero costruita, non è solo un’invenzione del computer) e la storia, romantica ma non sdolcinata, con un tocco di ecologia e una, non particolarmente velata, critica all’uso delle forze militari durante la presidenza di Bush. È un film in cui l’onore e il coraggio si intrecciano, messi in risalto dal comportamento del “cattivo”, il colonnello Miles Quaritch. Accecato dalla prospettiva del guadagno e dall’odio verso i Na’Vi, il popolo che abita Pandora, e verso Jack Sully, il protagonista, ne è l’alter ego. È un film che fa tornare alle origini, contrapponendo la semplicità dei Na’Vi, che amano e sacralizzano la natura, alla tecnologia delle armi degli umani nel 2154. Quando si esce dalla sala del cinema diventa chiaro cosa intendesse James Cameron, parlando di alcuni fan che hanno provato una “depressione post cinema”: perché, dopo una full immersion nel mondo di Pandora, tornare nel mondo reale risulta difficile, soprattutto considerando quanto grigio e banale sia rispetto al pianeta alieno. E si finisce per rimpiangere le due ore e quaranta trascorse davanti allo schermo, finite troppo in fretta.
Anna Aglietta (3C)