«Venghino signori, venghino! Materiale fresco, anzi freschissimo!»
Sabato 24 Novembre, ore 09:30
«Bella signora guardi! Guardi che offerte incredibili!»
Collegno, palazzetto dello sport.
«Imperdibile, prendi due, paghi uno!»
La folla migra disordinatamente da una bancarella all’altra, guarda la merce, interroga i negozianti con fare sospetto cercando di individuare una fregatura nascosta ma data per certa. Chiede il prezzo, la qualità, la provenienza, i vantaggi e pone la fatidica domanda: «Maaaa … che differenza c’è rispetto alla merce che vendono di là?»
Gente urlante, da far invidia a Porta Palazzo, famiglie barcamenanti e barcollanti che a spallate cercano di non farsi sfuggire nessun prodotto di quest’ironica fiera. Gli unici spettatori inerti sono i ragazzini, trascinati in giro dai genitori come palloncini muti e impassibili legati ad un filo di nylon. Palloncini che tendono al cielo, e forse è proprio lì fra le nuvole che la loro mente fluttua indipendente. Perché quando provi di sfuggita, approfittando della distrazione di una mamma troppo impegnata a sgolarsi, a chiedere loro cosa vorrebbero prendere da quest’ammasso confuso e rumoroso di bancarelle, l’unica risposta che ottieni sono due occhi assenti e un significativo e conciso monosillabo: boh.
Non interessa. O hanno rinunciato ad interessarsi, travolti dall’impeto di una mamma che sa cosa vuole per tutti e due, la cui sicurezza prorompente non ha bisogno di conferme. E i ragazzini fluttuano storditi, rifugiandosi in qualche pensiero imperscrutabile che hanno rinunciato ad esprimere. Non è più tempo di ascoltare i capricci dei fanciulli, troppe ombre sul futuro, troppi desideri, troppi bisogni e troppi pochi soldi per soddisfare tutti. È il momento di pensare prima a sopravvivere e poi a vivere, e i genitori sanno bene come si fa; seguendo quell’istinto che la selezione delle specie ha stampato loro a fuoco nel DNA, puntano con ferocia ad un solo obbiettivo: la sopravvivenza della prole, che ad oggi si condensa in un unico concetto: lavoro.
Così, al salone dell’orientamento di Collegno, si assiste alla svendita della cultura. Professori stanchi pubblicizzano offerte formative che comprendono pacchetti di ore frontali + laboratori in omaggio. Alunni sopravvissuti a scuole di vario genere, con un sorriso forzato cercano di rispondere alla pioggia di domande apprensive su orari, costi, insegnanti, spostamenti, pasti, materie ma soprattutto possibilità. «Cosa può fare mio figlio una volta uscito da questa scuola? Può lavorare?»
«Signora, è un liceo. Prepara molto bene per qualunque università ma non insegna un mestiere. Ma … ma il ragazzo acquista capacità logiche ed analitiche, impara nuove lingue, acquisisce consapevolezza della propria cultura …»
«Mi dispiace signorina, ma non si porta da mangiare a casa con la consapevolezza della propria cultura».
No signora, non ci si mangia. Sì, sono cinque anni di spese pesanti e sono soldi che frutteranno (forse) tra dieci o quindici anni, sempre che il ragazzo si laurei (altri soldi, tanti soldi) e che trovi lavoro (cominci pure a snocciolare il rosario).
Sa che le dico? Maledette! Maledette siano quelle persone che anni fa, per far studiare i propri figli, hanno creato un mito generazionale: si studia per far soldi. Deleterio. Tutto ciò è deleterio. Nessuno dovrebbe studiare con l’unico scopo di trovare un lavoro. Il lavoro è sopravvivenza; la cultura va ben oltre, è il senso che diamo alla nostra vita, è una responsabilità verso il mondo che abitiamo. È vero, la consapevolezza della propria identità culturale non si vende, non si produce e di certo non si mangia, ma è quella cosa con la quale ci sveglieremo ogni mattina durante la nostra permanenza su questo schifo di globo terroso, ci accompagnerà al lavoro che odieremo per il resto dei nostri giorni e ci farà capire che forse c’è dell’altro oltre alla normale sopravvivenza quotidiana. Ci farà capire che forse ne vale la pena.
Non mi guardi così, lo so anche io che i soldi non si rigenerano da soli nel portafoglio, e che se non si può, non si può: gli ideali non pagano i tomi, le borse di studio fanno sorridere, i mariti in cassa integrazione vorrebbero qualche entrata in più in famiglia il prima possibile e le zucchine al mercato che costano quanto un libro di latino, rendono quest’ultimo molto superfluo. E quindi come si fa? Non si fa. Si continua a trascinare il proprio figlio-palloncino tra un’offerta formativa e l’altra, chiedendogli mentalmente scusa in nome del suo avvenire.
Mentre viene messo in scena questo dramma silenzioso, coperto dalle urla da mercato, il sindaco di Collegno in tailleur cerca di attirare l’attenzione della folla in vista delle elezioni. Pronuncia parole come speranza, futuro e possibilità; dall’altra parte professori, genitori, ex e futuri alunni la fissano, infastiditi da un’evidente presa in giro e, nonostante il silenzio imposto dalle hostess dell’evento, la scritta che scorre in sovraimpressione sui volti di tutti esprime chiaramente la perplessità più assoluta.
Futuro? Speranza? In un paese dove a quindici anni ti si chiede di scegliere fra vivere e sopravvivere? No. Non c’è futuro in un paese così. Non c’è speranza perché non ci sono possibilità.
Non ho le competenze per fare un’analisi sociale, economica, politica e storica delle cause che hanno portato a tutto questo. Non so contro chi puntare il dito e anche se lo sapessi probabilmente non mi basterebbero le dita per incolpare tutti i malfattori che hanno costretto la mia generazione in ginocchio. Ma ho due occhi e due occhi bastano per vedere che di questo passo del “futuro” non rimarrà che una sterile voce sul vocabolario.
Eugenia Beccalli