Sono sulla terra. Al buio. Sto aspettando. I miei piedi si stanno congelando. L’asfalto è così freddo, se hai delle scarpe estive poi… Aspetto qualcosa di grande, l’ho aspettato a lungo e nel frattempo ho pensato. A molte cose. Ma ho capito poco e niente.
Sto aspettando un ascensore. Di quelli di vetro, dove puoi vedere tutto ciò che c’è sotto di te. Finalmente arriva, ci salgo. Ma sotto di me non c’è proprio niente. Solo terra. Non esiste via d’uscita da questa gabbia, il nodo di questa maschera non si può slegare. Sono io che lo decido. Ho paura. Di cadere giù, ancora più in basso.
Ma sotto di me non c’è più niente. Solo terra.
Chi mi ha spinta così in basso? “Ci sei finita da sola, cretina”.
L’ascensore sale più su, vedo volti a me cari. Ma non ricordo il nome. Cerco di chiamarli ma la voce non mi esce dalla gola. Non li capisco.
Salgo più su. Vedo mia madre. Il suo viso è scuro, rigato da lacrime nere. Vorrei raggiungerla ma la mia scatola di cristallo mi imprigiona.
Salgo ancora. Poi mi fermo. Mi giro istintivamente verso qualcosa che non vorrei vedere. Eppure è lì, davanti ai miei occhi, inevitabile come l’acqua che scorre in un fiume. Impetuosa e inafferrabile. È la vita. Il dolore e la gioia insieme. Il tutto del mio vivere che si raggruppa in un solo istante. E io sono spettatore e regista allo stesso tempo. O forse non sono nessuno dei due. Non sono niente.
L’ascensore riprende a salire c’è una figura diritta davanti a me. La foschia è troppo fitta per capire. “Diamine Carolina, apri gli occhi!”.
Ora la vedo.
È mio padre.
Mi guarda.
E mi sorride.
Carolina Sprovieri (3B)