Vita d’isola

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Ancora il vento caldo. Fa girare in piccoli mulinelli veloci la spazzatura della strada, e mi porta la polvere negli occhi. Una foglia mi si posa in grembo e io la prendo in mano e la guardo, ha i bordi zigrinati come la carta colorata di un guefu.

Improvvisamente una folata di aria più secca delle altre mi fa arrivare un odore di fumo. Un altro incendio sulla montagna. Quant’è che non piove? Più di due settimane, ma che dico, forse è già un mese, com’è spaccata la terra in cortile. Una lucertola scivola veloce in una crepa più grossa delle altre.

L’estate come sempre ha seccato tutto, e sotto questo sole impietoso nemmeno il vento riesce a muovere le foglie degli arbusti che fiancheggiano la strada.

Santo Iddio, che caldo sotto questo scialle…Non ce la faccio più, sarà meglio che vada a sedermi sotto il portico ché devo anche girare i pomodori…Ahi Barbaredda come sei invecchiata, non riesci più nemmeno a piegarti sulla grata…Ah, ecco, questo è l’ultimo.

Meno male che c’è la sedia qui vicino, le gambe non mi reggono più. Non c’è nessuno, posso anche allargare un po’ questa cosa. Bene, ora respiro. Respiro puro calore, mi sento quasi bruciare la gola. Come mi manca l’odore di umido. Per noi dell’isola è un lusso l’odore della pioggia che cade a goccioloni sulla terra riarsa, però quando ero piccolina c’era sempre quest’odore in casa mia.

Tenere il pavimento sempre un po’ bagnato era l’unico modo per evitare che ramazzando si sollevasse un polverone e si andasse a posare sulla coperta e sul tavolo, e non è che facesse bene dormire sempre con tutto quell’umido, ma sì, era proprio il meno…Mi toccava ben di peggio.

Avevo cinque anni quand’è nato Giuliano, Zulianeddu. E chi sa come si chiamava suo padre, mammai non ne parlava mai, ma dopo pochi giorni che l’aveva avuto era già di nuovo in campagna. Avevamo bisogno che lei ci andasse, in campagna: il padrone le lasciava prendere un po’ di ceci, fagioli, piselli qualche volta e fave, tante fave…Devi averne mangiate troppe da piccola, Barbaredda, ché adesso non le puoi più soffrire.

E quante ore, quante ore hai passato sotto l’ombrello azzurro di comare Sofia, aspettando che tornasse mamma che sembrava essere stata inghiottita dal campo, che ti faceva paura tanto era grande, ninnando Zulianeddu che si muoveva e che timore avevi che ti cadesse…A cinque anni come ci si spaventa facilmente.

Dev’esserti venuto lì il mal di cuore, ahi santo Iddio che male la schiena…Ecco, così va meglio, peccato si sia sfasciata la poltrona di vimini, questa sedia di plastica è così scomoda…Bah, che lagna che stai diventando Barbaredda.

<<Enzandusu, comare Barbaredda, come andausu?>>

<<Bene, bene, Valentina, grazie.>>

<<Avete bisogno di qualcosa?>>

<<No, non ti preoccupare, vai.>>

<<A domani, zia, a domani.>>.

Ma perché sei così scontrosa con quella ragazza, Barbaredda, che male ti ha fatto? Ah ma assomiglia tanto alla maestra con la sua compassione che proprio non la potevo sopportare. E pace all’anima sua, non dovrei parlar male dei morti.

Era tutte le sante mattine la stessa storia. Mi guastavano la gioia di andare a scuola, quei pochi minuti dell’appello. Ancora sogno quella scena, certe notti, e mi sveglio umiliata e neanche le iniziali ricamate sul cuscino né il lampadario che pende dal soffitto mi convincono che sono qui, che sono vecchia e che è tutto quasi finito.

Erano tutti figli di qualcuno, i miei compagni. C’era il figlio di Giovanni Murgia, c’era il figlio di Luigi Murru, c’era la pupetta di Sante Serra col grembiule pulito, e poi c’ero io.

Figlia di Rosaria Addis e di N.N..Non noto. Bastarda, come il cane di zio Pietro e come tutti gli animali che giravano per la via dove si affacciava il nostro scantinato infilando il muso nel vano della porta per chiedere qualcosa da mangiare. Invece ricevevano pedate, e calci, e improperi violenti.

E anch’io ho ricevuto la mia dose di pedate.

Ogni appello era una pedata. Ogni sguardo di disprezzo che mi rivolgevano le signore quando passavo col bambino in collo era una pedata. Ogni padrona che sollevava un sopracciglio quando dicevo che avevo il cognome di mamma, ogni volta che mi chiedevano il nome del papà e io mi facevo rossa perché non lo sapevo sono stati per me una pedata.

Che vita, Barbaredda, che vita.

Poi a otto anni, a servire dalla maestra. La scuola sì che mi piaceva, far la serva davvero lo detestavo, ma non erano tempi da far la difficile.

Una lavata, un grembiule, e via.

Mi ha ingannato la maestra, come molta della gente che ho incontrato nella vita. Mi aveva promesso l’esame di terza, studierai un poco a casa mia, ma sì! Non avevo mai il tempo.

C’era il salotto da spolverare e i pizzi di giornale da ritagliare, le camicette da stirare con le piegoline sul davanti che era una maestra rispettabile, lei.

Era una donna alta, la ricordo ancora adesso, ma ora so che io, che non sono arrivata oltre il metro e mezzo, ho fatto nella mia vita molte più cose di tanta gente di due metri.

Ma allora comandava lei.

E quando non era più lei, era una signora vecchia che mi portava solo a funerali e a battesimi, e dai parenti che storcevano il naso quando scoprivano che ero figlia di N.N..

Ora che sei vecchia, Barbaredda, puoi anche immaginare come siano andate le cose tra mammai e tuo padre. Tu che hai fatto la serva, lo sai eccome com’è successo.

E anche tu ti saresti sentita evitare dalla gente se solo la signora di Cagliari non si fosse accorta del nipote, che spariva sempre nell’ala della servitù.

Ti saresti dovuta piegare al volere di lui perché era ricco. E quanto l’hai odiato, Barbaredda, quando ti si avvicinava mentre eri sola a fare il bucato dei bambini e ti toccava come fossi sua proprietà.

Santo Iddio, santo Iddio ti ringrazio che i miei bambini hanno avuto tutti un padre, un buon padre, con che coraggio li avrei mandati a scuola figli di N.N.?

Però a mammai non posso fargliene colpa. Me lo immagino, mio padre da giovane, con i miei stessi occhi grigi accesi dal desiderio che abbraccia mamma in una notte di vento, mentre la casa è scossa da brividi legnosi e scricchiolanti.

Santo Iddio, se sto facendo peccato, perdonami.

Non che la mia vita a casa fosse meglio che a servizio.

Il fiume distava mezz’ora da casa mia e io e mammai avevamo bisogno dei soldi del bucato degli altri per tirare avanti. E allora, su la cesta sul capo, come tiravano le trecce, e bisognava portare la roba fino sulla riva, dove mamma stava coi piedi immersi nel fango e strofinava, sfregava, aveva le mani callose e la schiena già curva ma non si lamentava mai.

Poi, bisognava fare il percorso inverso fino a casa con la biancheria bagnata che sembrava farsi sempre più pesante, ad ogni passo, ma non c’era tempo per preoccuparsi di se stessi. C’era il pericolo che il vento portasse su polvere e spazzatura dalla strada e sporcasse la roba, perciò via a casa a stendere la roba degli altri, e controllare che fosse ben bianca e pulita. E come erano bianche quelle lenzuola vicino ai tuoi abitucci scuri e mal lavati con la cenere vecchia, Barbaredda.

No, non hai mai avuto tempo.

Ma adesso che sei vecchia, hai un tempo infinito davanti a te.

E com’è lungo questo portico, Barbaredda che lenta sei diventata, sbrigati o il vento ti sporcherà i panni, e tuo padre non troverà la cena pronta, e chi dormirà con il signorino stanotte, chissà se Mario è tornato dalla miniera e ha lasciato Zulianeddu a far da canarino agli altri là dentro…

 

E sulla tua tomba, Barbaredda, non ci sarà scritto quanto hai lavorato nella tua vita, quante cose hai fatto tu che eri alta un metro e cinquanta, quanti bocconi amari di mandorla hai dovuto ingoiare.

 

Chiara Murgia (1C)

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