Il 12 giugno 2009 il popolo iraniano è andato a votare per eleggere il nuovo presidente.
Il presidente uscente, Mahmoud Ahmadinejad, aveva promesso durante la campagna elettorale del 2005 di riportare l’Iran agli ideali della rivoluzione del ’79 e far arrivare alle tavole dei poveri i profitti che lo stato trae dall’esportazione del petrolio (l’Iran è il quinto esportatore di petrolio al mondo ed il terzo di gas naturale), ma tutto ciò che è riuscito realizzare nel suo mandato è stata la rovina dell’economia iraniana. L’inflazione in quel periodo è aumentata in modo drastico, raggiungendo quota 25-30%, ed il deficit è giunto sino a $44 mld. Nella politica estera ha mantenuto una ferma posizione contro gli Usa e si è espresso contro Israele, invocando la sua distruzione e la sua cancellazione dalle mappe geografiche, cosa che ha causato la disapprovazione della comunità internazionale e il rischio di espulsione dalle Nazioni Unite.
Secondo la legge iraniana qualunque cittadino può candidarsi per le elezioni alla presidenza; quindi, dopo essersi candidati, si deve superare il vaglio del Consiglio dei Guardiani, che è l’organo a cui spetta determinare se un candidato possiede i requisiti e l’integrità morale necessari alla candidatura. Nel 2009, tra le centinaia di candidature solo quattro sono uscite dal setaccio, ovvero quelle di Mahmoud Ahmadinejad, Mir Hossein Mousavi, Mehdi Karroubi e Mohsen Rezaei.
Il primo, figlio di un fabbro, veterano della guerra con l’Iraq, ex sindaco di Tehran e conservatore, può contare sull’appoggio della guida suprema, degli organi militari e dei ceti di livello minore che beneficiano della politica dei sussidi adottata già nei suoi 4 anni di mandato. Il punto principale del suo programma è il nucleare, nonostante questo punto trovi molti dissensi dalla comunità internazionale, che invia continue sanzioni all’Iran affinché fermi i suoi progetti.
Mousavi, riformista, architetto e pittore, ex Ministro degli esteri ed ex primo ministro dell’Iran negli anni della guerra con l’Iraq, propone di privatizzare le reti di informazione (quali canali radiotelevisivi), di revisionare i testi delle leggi che discriminano le donne, assicurando maggiori diritti per queste ultime, di garantire minore invadenza della polizia religiosa e avviare una migliore politica economica. Si dimostra favorevole al programma nucleare, in quanto è un diritto nazionale, ma solo con una riduzione dei costi, in contrasto con i progetti radicali in corso. È appoggiato da Rafsanjani, un uomo di enorme valenza politica ed economica, e da Khatami, l’ultimo presidente riformista. È il principale concorrente di Ahmadinejad.
Karroubi, chierico sciita e politico riformista, è arrivato terzo alle elezioni del 2005. Dopo la sconfitta alle elezioni accusò interventi illegittimi mirati al condizionamento dei voti degli elettori attuati da alcuni individui durante le elezioni compreso il figlio dell’ayatollah
Khamenei, la massima autorità/guida suprema. Dopo di che, il 19 giugno, Karroubi scrisse una lettera aperta a Khamenei con tutte le accuse, e nella medesima lettera vi scrisse le sue ufficiali dimissioni da tutte le cariche politiche. Nel 2009 si è ricandidato alle elezioni chiedendo delle elezioni libere, senza l’intervento dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, che secondo lui avrebbero influito in maniera decisiva sulla sua sconfitta alle precedenti elezioni.
Rezaei è un politico contrario alle idee di Ahmadinejad (anche se conservatore), vuole creare un atmosfera di dialogo tra l’Iran e le comunità internazionale, in particolare con gli Stati Uniti; mira ad una privatizzazione dell’economia che porterebbe ad un aumento dell’occupazione ed ad una diminuzione dell’inflazione. Tuttavia il consenso che trova è molto basso.
La campagna elettorale all’inizio non suscita grande entusiasmo, e ci si aspetta di nuovo un’elezione come quella del 2005, dove la partecipazione è stata minima e l’affluenza ai seggi è stata la più bassa mai registrata. Poi lentamente la gente si appassiona e Mousavi acquista una posizione di primo piano. Il suo successo è dovuto al fatto che si presenta al popolo come una figura che si propone come alternativa ad Ahmadinejad, che rappresenta il regime e quindi tutte le oppressioni, le censure e tutte le idee fondamentaliste. La gente vede in Mousavi l’uomo del cambiamento.
Il resto del successo è arrivato grazie anche alla sua efficiente macchina elettorale. Lui e i suoi sostenitori puntano sulle nuove tecnologie per diffondere il suo nome: con migliaia di messaggi su Facebook, Twitter e sms nel giro di poche settimane riescono a raccogliere un vasto consenso tra l’opinione pubblica, specialmente tra i giovani. Giorno dopo giorno cresce il numero delle persone intenzionate a votare e con esso crescono anche le possibilità che Ahmadinejad non venga riconfermato; infatti nel 2005 lui aveva vinto anche grazie all’elevato numero di astenuti (oltre il 35%).
Ovunque v’è un clima di grande partecipazione politica. Negli ultimi giorni di campagna Tehran è invasa da migliaia di sostenitori Mousavi, che colorano la capitale di verde, il colore simbolo della sua campagna, nonché colore dell’Islam e della speranza.
Finalmente arriva il 12 giugno e tutti gli iraniani sono chiamati alle urne per votare il presidente designato. L’affluenza alle urne, come previsto, è altissima: i seggi, che avrebbero dovuto chiudere alle 19:00, devono prorogare di due ora la chiusura, per permettere a tutti di votare, ed in seguito di un’altra ora. La grande partecipazione ha sicuramente indirizzato la scelta sui due candidati più forti, Ahmadinejad e Mousavi. E dato che il primo nel 2005 aveva vinto anche grazie all’astensionismo, la vittoria del secondo appare a questo punto scontata. Nel passato, ogni volta che c’era un’alta affluenza alle urne, di solito vincevano i riformisti.
A notte fonda in Iran arriva la prima dichiarazione di Mousavi, che afferma di aver trionfato nelle elezioni.
Passano pochi minuti e l’Irna, la Islamic Republic News Agency, diffonde la notizia che, con il 60% dei voti, è stato Ahmadinejad a vincere. Immediatamente anche il Ministro dell’Interno fornisce la sua prima versione dei risultati: Ahmadinejad avrebbe ricevuto il 65% delle preferenze, strabattendo gli avversari: Mousavi avrebbe ottenuto il 32% dei voti, Rezaei il 2% e Karroubi solo lo 0,6%.
Ma c’è qualcosa che non va. Di solito lo spoglio è molto lento e per scrutinare tutti i voti occorrono almeno 2 o 3 giorni. Mentre in questo caso il Ministero dopo tre ore dalla chiusura dei seggi ha contato più di 20 milioni di voti. Dieci ore dopo arrivano i risultati ufficiali di tutte le schede contate ed il risultato varia leggermente da quello fornito dal Ministero dell’Interno 10 ore prima.
Ahmadinejad ottiene il 60% dei voti praticamente dappertutto anche in zone considerate roccaforti di Mousavi e in zone dove nel 2005 aveva perso. Karroubi, che nel 2005 aveva ottenuto il 17% dei voti, ottiene lo 0,85% dei voti, addirittura meno delle schede bianche o nulle. Rezaei vede incredibilmente decrescere i suoi voti col trascorrere del tempo: alle 9 del mattino la televisione indica che ha raccolto 633 mila voti, alle 14 i voti sono diventati 587 mila. E nessuno darà mai una spiegazione a questa assurdità.
Il sospetto di brogli è altissimo. Immediatamente Mousavi lancia accuse di elezioni illegali. Nel giro di pochissime ore l’Iran passa da uno stato di euforia ad uno di depressione e rabbia.
La gente spontaneamente comincia a scendere in piazza e per strada per protestare contro i risultati, chiedendo nuove elezioni, pacificamente. La protesta si fa massiccia. A Tehran scendono per strada forse 2 milioni di persone ed altre imponenti manifestazioni si svolgono anche in altre città. Mousavi accompagna i manifestanti nella loro protesta. Compaiono anche Khatami, l’ex presidente riformista, e suo fratello.
Il governo, per disperdere i manifestanti usa la violenza: squadre di Basiji in motorino e Pasdaran prendono a manganellate i manifestanti, uomini, donne o vecchi che siano non fa differenza.
Ma la gente non teme le manganellate, anzi la protesta si fa più viva: partono cori contro Ahmadinejad, vengono costruite barricate per strada, cassette dell’immondizia, gomme e auto vengono bruciate per strada. E quando cala la notte, le proteste continuano, anche se non con la stessa vivacità: si sentono le voci delle persone, che gridano di tetto in tetto “Allah Akbar”, Dio è grande.
Anche la nazionale di calcio si unisce alle proteste: gran parte dei giocatori durante la partita contro la Corea del Sud per le qualificazioni ai Mondiali lega una fascia verde al braccio.
Ed il governo fa di tutto affinché il mondo non sappia di ciò: blocca i servizi di telefonia, abbassa la velocità di connessione al Web, blocca l’accesso ad alcuni siti, quali Youtube, Myspace e Facebook ed espelle tutti i giornalisti esteri dal proprio paese. Ma i blocchi sulla rete si riescono a scavalcare e le notizie riprendono ad affluire, anche se con minore velocità.
Dopo qualche giorno, dato che le proteste non accennano a terminare i Basiji e i Pasdaran decidono di aprire il fuoco sui manifestanti per disperderli.
Nella prima settimana dopo il voto i morti ufficiali sono 8, ma si parla di almeno 20 vittime.
Molte delle violenze (come quella della morte di Neda, che diventa un simbolo della protesta) vengono riprese e fotografate e tutto questo materiale viene immesso nella rete, che si rivela uno strumento fondamentale in tutta la storia.
Centinaia di riformisti, giornalisti, politici vicini al trio d’opposizione Mousavi Khatami Rafsanjani, intellettuali, attivisti per i diritti umani ed anche lo stesso Karroubi vengono arrestati ed alcuni torturati, obbligandoli a pentirsi delle loro proteste ed ad assumersi la colpa di aver manifestato contro la Repubblica Islamica.
Nonostante tutti gli appelli della comunità internazionale e le proteste il regime non indice delle nuove elezioni ed Ahmadinejad viene nominato capo del governo.
Il resto è storia.
Pouya Houshmand (1E)